Diario da Gaza – Martedì fuggiremo da Rafah, ecco come prepariamo la partenza: dormiremo in 26 in riva al mare nella speranza di non essere attaccati

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Sono ore concitate. Non abbiamo più dubbi sul fatto che un attacco su Rafah è imminente e non possiamo più perdere tempo. Ci stiamo preparando all’ennesima evacuazione, l’ottava, e questa volta dobbiamo preparare tutto con cura perché ci troveremo in una situazione ben più difficile di tutte quelle in cui siamo stati finora, giacché non avremo più un tetto ma staremo in una tenda.

La suddivisione dei compiti

Ci siamo dunque divisi i compiti: e ciascuno è indaffaratissimo a concludere le sue incombenze nel più breve tempo possibile. Io ho passato la giornata con un abile costruttore di tende: gli abbiamo dato indicazioni chiare di cosa vogliamo. Un tendone che ospiti la nostra intera piccola comunità di 26 persone – quattro famiglie e fra queste 12 bambini – cui si collegano tende più piccole affinché ciascuno abbia ancora un minimo d’intimità. Andremo in una zona ad ovest di Khan Yunis vicinissima al mare. L’abbiamo già occupata con paletti di legno e teli di nylon e per ora a turno già qualcuno di noi ci dorme, al gelo.

Sappiamo già che patiremo il freddo e saremo soggetti al maltempo ma per ora è la soluzione più sicura perché è una zona isolata, dove non ci sono case e non ci sono stati combattimenti, non può interessare particolarmente i militari. Stiamo insomma, facendo l’opposto di quel che qui fanno tutti: ammassandosi il più vicino possibile a scuole o magazzini dell’Unrwa, ospedali e sedi della Mezzaluna rossa. Perché ormai lo abbiamo capito: i luoghi sovraffollati non fermano l’esercito israeliano, anzi, con l’idea che Hamas si fa scudo dei civili, sono quelli dove attaccano. I più pericolosi. Lo abbiamo scelto con attenzione quel luogo: anche perché non è troppo lontano da un centro medico che ha delle ambulanze. Se qualcuno dovesse star male, non sarà impossibile ottenere cure.

La partenza all’alba

Partiremo martedì all’alba, sperando che non sia già troppo tardi. Dobbiamo avviarci lungo la strada costiera e dobbiamo a tutti i costi farlo prima che l’esercito decida di interrompere – o comunque di regolare – il flusso dei profughi. Saremmo voluti andare via prima, già stamattina. Ma purtroppo non siamo ancora pronti. Per sopravvivere con dignità in quelle condizioni abbiamo bisogno di procurarci molto di materiale, compresa una toilette chimica, fare scorta di bombole del gas e benzina, altre coperte, materiale isolante da mettere sul pavimento, una stufetta a legna, tutta roba che in parte si trova solo alla borsa nera. Le donne sono andate a fare la spesa al mercato facendo incetta del poco che si trova.

Altre hanno fatto la fila in farmacia cercando di procurarsi farmaci di primo soccorso. Vorremmo, una volta piazzati lì, muoverci il meno possibile, almeno fino a quando non sarà passata questa nuova tempesta di bombe che tutti si aspettano. Anche se le comunicazioni saranno in problema. Non c’è rete e per chiamare bisognerà comunque spostarsi. Qui a Rafah anche altri stanno facendo così. Ma la maggior parte è come stordita e attonita. Aspetta sia l’esercito a dirgli di muoversi. Noi non vogliamo aspettare i volantini con cui di solito si danno gli avvertimenti e le indicazioni per l’evacuazione. L’ho già visto altre volte: si scatena il panico, le strade diventano improvvisamente sovraffollate, muoversi diventa difficile. E anche pericoloso, perché a quel punto l’esercito è già troppo vicino.

Nessuno si fida del piano di Netanyahu

Lo so, il premier israeliano Netanyahu ha detto che c’è un piano per far evacuare i civili. Ma qui nessuno si fida più. Ci hanno ingannato troppe volte. Spostandoci come birilli e poi sparandoci addosso proprio mentre obbedivamo ai loro ordini. È successo a Khan Yunis, sta accadendo qui a Rafah. Fanno propaganda all’esterno dicendo che tutti i criteri umanitari sono rispettati e che la popolazione civile è risparmiata e perfino aiutata. Posso dirvi che non è vero, perché l’ho visto coi miei stessi occhi. I civili sono vittime di una punizione collettiva di cui non hanno colpa. Siamo stremati e sull’orlo della follia.

Martedì all’alba sposteremo prima le cose e poi le persone. Quattro di noi rimarranno di guardia: si fa per dire, perché non abbiamo armi. Diciamo che sarà la sola presenza a fare da deterrente. Nessuno si avvicina alla roba d’altri, a patto che questa non sembri abbandonata. Poi sulle nostre auto, per le quali ci siamo procurati a prezzi folli la benzina, sposteremo le famiglie. Un nuovo, difficile capitolo che ci aspetta, una situazione totalmente differente. Purtroppo non è un romanzo, ma una nuova, spaventosa, dura realtà.

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