Diario dalla Striscia – Essere giornalisti a Gaza. Aspettiamo una tregua per sopravvivere e per poter lavorare

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RAFAH — Le mie figlie ammalate da giorni ora stanno un po’ meglio e questo ci ha restituito speranza. Anche in città si respira un clima diverso ora che si è tornati a pronunciare la parola tregua. Abbiamo la sensazione che fuori da questa gabbia dove siamo reclusi, quanto meno si stia provando a fare qualcosa. Per noi che ci siamo sentiti davvero abbandonati, significa molto. Tutto, direi. Perché solo la speranza ci permette di sollevare la benda di orrore che ci ottenebra lo sguardo e ricominciare a vivere immaginando un futuro, sia pure a breve scadenza.

Certo, noi evacuati dal Nord della Striscia difficilmente potremo tornare nelle nostre case: almeno fin quando non ci sarà la pace. Ma forse in sei settimane di tregua – è di questo che si parla – un po’ della pressione su questo angolo sovraffollato di mondo si allenterà, entreranno nuovi aiuti, si troverà cibo, coperte. Chi viene dall’area centrale di Gaza o Khan Younis potrà tornarsene indietro: ultimi ad approdare quaggiù quando ormai era troppo tardi non hanno trovato nulla: dormono accampati sui marciapiedi fangosi o in tende piantate sulla spiaggia. Almeno loro, ci diciamo, potranno andare a vedere se della loro vita passata resta ancora qualcosa: le loro case, qualche avere. E svuoteranno un pochino questa città pensata per 100mila e affollata ormai da un milione di persone.

Guardare al futuro mi dà anche la speranza di poter riprendere a fare il mio mestiere di giornalista al meglio: riprendere a girare per la Striscia a raccogliere storie, raccontando ciò che accade guardandolo coi miei occhi. Sì, perché fra i bombardamenti pesanti e le operazioni militari che ci hanno costretti a restare sempre a Rafah nelle ultime settimane, è stato impossibile allontanarsi. Mancava la benzina per far muovere i mezzi ed era troppo pericoloso. Di recente il mio osservatorio si è ristretto, limitato a ciò che mi accadeva in casa e nelle immediate vicinanze.

Essere giornalisti a Gaza non è mai stato facile: non si è mai meri osservatori ma una parte delle storie che racconti. Il dolore degli altri di cui scrivi è il tuo stesso dolore. I morti sono i tuoi morti, la guerra è la tua guerra. No, non è mai stato un lavoro da sogno, ma questa guerra è la peggiore di tutte. Abbiamo visto le nostre case e le nostre famiglie distrutte. Eppure devi essere sempre lucido e farti carico del dolore di tutti: quello di fuori e quello di casa tua. In questa guerra, poi, siamo diventati target. Secondo il Committee to Protect Journalists sono già 78 i giornalisti morti a Gaza, 38 dei quali colpiti nelle loro case, nelle loro auto o mentre erano circondati da familiari in operazioni che riteniamo fossero mirate. Almeno 25 sono stati uccisi mentre indossavano l’inconfondibile giubbotto antiproiettile azzurro con su scritto “press”, stampa, lo stesso che anche io metto quando vado in giro. Altri colleghi sono stati evacuati dai media per cui lavorano, resisi conto che la loro vita era in pericolo. Mentre ai giornalisti stranieri non è permesso entrare qui e verificare i fatti in maniera indipendente. Questo vuol dire che oggi sono diminuiti gli occhi e le voci capaci di raccontare quel che succede davvero sul terreno. La situazione è così spaventosa per noi giornalisti rimasti, che quando ci incontriamo ci abbracciamo: “Siamo ancora vivi”, ci diciamo cercando di farci coraggio.

Proviamo tanto dolore ma anche un costante senso di colpa: perché avendo ancora uno stipendio siamo in condizioni di vita minimamente migliori di altri. Io posso pagare una stanza, sia pur sovraffollata. Posso procurare acqua potabile pagandola una fortuna. La mia famiglia soffre indicibilmente: ma quando vado a raccogliere storie nei rifugi mi rendo conto che c’è chi soffre molto di più. In quei posti vivono nel pericolo costante in condizioni miserabili. Senza privacy: tutto avviene sotto gli occhi di tutti, dai bisogni corporali ai parti. E se noi riusciamo a lavarci una volta ogni 15 giorni, c’è gente che non si lava da due mesi perché quel poco di acqua che hanno devono berla anche se contaminata. E c’è un altro aspetto molto preoccupante: hanno perso il controllo dei bambini. Si allontanano continuamente, corrono rischi, si contagiano, rubacchiano, spariscono. Quindi, non possiamo far altro che continuare a raccontare.

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