Diario da Gaza – Così vicini, così lontani: i baraccati di Rafah cercano notizie sui parenti rimasti a Nord

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RAFAH — Siamo a casa, fuori piove, tutta la scorsa notte ha piovuto. Ma la pioggia non ferma il bisogno di avere notizie, di sapere come stanno i familiari nelle altre zone della Striscia e cosa succede fuori, nel mondo. Per farlo, molti si spostano verso il confine con l’Egitto per cercare il segnale del telefono e la connessione internet perché la rete di comunicazioni locale è quasi del tutto fuori servizio, soprattutto nel nord e nel centro di Gaza. La rete telefonica gestita da Paltel è andata in crash più di dieci volte dal 7 ottobre.

Vicino al primo recinto di filo spinato, alla frontiera egiziana, si vedono persone sedute a digitare messaggi ai genitori o ai parenti a Khan Yunis, a Gaza City, e altre che tengono i telefoni in aria cercando un segnale. La scorsa notte qui a Rafah molte persone si sono riversate in strada felici, gridavano: si era diffusa la notizia che Hamas e Israele fossero vicini a un accordo per la tregua se non persino per il cessate il fuoco. Per un attimo abbiamo visto la fine di questo incubo. Era una sensazione di sollievo indescrivibile perché siamo tutti terrorizzati dalla promessa di Israele di invadere anche Rafah. Hanno detto che hanno “finito il lavoro” a Khan Yunis e questa suona come una minaccia terrificante. Questa mattina, è arrivato il gelo, la grande disillusione, quando Israele ha chiarito che stanno ancora discutendo e Hamas ha ribadito che non accetteranno alcun accordo che non implichi il cessate il fuoco permanente.

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Un velo di frustrazione è sceso su Rafah mescolandosi alla pioggia e al fango. Nelle tende, molte marcite, fa tanto freddo. All’interno di ogni tenda ci sono 10, 15 persone, famiglie intere che si sono ammalate. Molti vivono con pochissimo cibo, senza elettricità, senza acqua potabile. Da 120 giorni non faccio una doccia calda. Nessuno può immaginare cosa stiamo passando. Se Israele entrerà a Rafah sarà una trappola mortale per un milione e 800mila persone. Dove potremo mai fuggire?

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Chi è scappato da Khan Yunis a Rafah non può tornare indietro perché lì le case sono state rase al suolo, dovrebbero prendere le loro tende malmesse e piazzarle sulla spiaggia di Khan Yunis, senza nulla con cui sopravvivere. Sono questi gli scenari di cui parlano le persone. L’altra paura è che Israele dia l’ordine a chi vive a Rafah di spostarsi nell’area di Al Mawasi, nella parte occidentale della città, che è già piena di tende, per schiacciare due milioni di persone sulla fascia costiera: parliamo di 2 km quadrati di spiaggia. Sarebbe un enorme slum terrificante. Migliaia di persone sulla sabbia, senza un posto dove mettere le tende, senza un posto in cui nascondersi: l’ultima crudeltà per fare pressione sulla popolazione e così costringere Hamas ad accettare l’accordo per rilasciare gli ostaggi. Questo è l’ncubo di Rafah ora. E non parliamo solo dei rifugiati, ma anche degli abitanti della città che hanno visto cosa è successo a Khan Yunis e a Gaza City.

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Le Nazioni unite dicono che Rafah è una “pentola a pressione di disperazione”. È molto più di quello, se solo il mondo fuori potesse vederla. Queste azioni contro i civili hanno avuto la luce verde dei Paesi del mondo. Ora li sentiamo alzare la voce. Ma anche quando la comunità internazionale ha fatto pressione su Israele, Israele l’ha ignorata.

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