Se la ricchezza è egoista

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Le società occidentali hanno sempre guardato con sospetto all’eccessiva concentrazione della ricchezza. Si tratta in buona parte di un retaggio del cristianesimo medievale, quando i ricchi erano considerati peccatori per la semplice ragione di aver accumulato risorse invece d’impiegarle a soccorrere i poveri. Paradossalmente, fu proprio l’incremento nel numero dei ricchi e l’aumento della dimensione dei loro patrimoni, costruiti sui profitti del commercio a lunga distanza e sulla finanza, che rese necessario un ripensamento. Così, dal tardo Medioevo in poi, ai ricchi dell’Occidente è stato attribuito un ruolo specifico: risparmiare nell’interesse della collettività, e rendersi disponibili ad aiutarla con le proprie risorse in tempi di crisi. Nei secoli successivi, fino almeno al Novecento, i ricchi hanno regolarmente assolto a questa funzione — volenti o nolenti, visto che in buona parte il loro contributo alla società veniva erogato tramite tasse, tributi straordinari o prestiti forzosi. Tuttavia, come argomento in un libro appena pubblicato dalla Princeton University Press, nel ventunesimo secolo i ricchi si sono mostrati eccezionalmente riluttanti ad adempiere al loro ruolo tradizionale, e questo non certo perché siano mancate le crisi.

A ben vedere, un po’ ovunque in Occidente, dalla Grande Recessione iniziata nel 2008 alla pandemia di Covid-19, si sono moltiplicate le richieste ai ricchi di rendersi disponibili a contribuire di più. E tuttavia, basta scorrere gli studi comparativi commissionati dall’Ocse o dal Parlamento Europeo circa le recenti riforme fiscali per accorgersi che, nella maggior parte dei casi, tali proposte non hanno avuto seguito. Tra le poche eccezioni figura la Spagna, che ha rafforzato la tassazione progressiva della ricchezza netta e introdotto, come misura temporanea (ma rinnovabile) una “tassa di solidarietà” sulle grandi fortune, con un’aliquota massima del 3.5% per patrimoni sopra i 10.7 milioni di euro. Altri Paesi (Italia compresa) hanno preferito ridurre il prelievo fiscale, in particolare quello sul reddito personale, per cercare di stimolare l’economia, solitamente privilegiando i redditi più bassi e per tale via, rafforzando la progressività del sistema.

Per quanto, in linea di principio, la riduzione della pressione fiscale possa essere ritenuta un obiettivo condivisibile (almeno se risulta compatibile con una adeguata fornitura di servizi), in tempi di crisi rafforzare la progressività riducendo le tasse ai poveri non ha la stessa funzione sociale di un aumento, anche temporaneo, del contributo richiesto ai ricchi, e questo sia sul piano simbolico e della percezione dei ricchi medesimi, sia sul piano molto più concreto del reperimento delle risorse aggiuntive impiegate per mitigare gli effetti negativi delle crisi. La soluzione di breve periodo è ovviamente stata l’ampliamento del debito pubblico — ma chi lo ripagherà? Data la tendenza attuale alla “semplificazione” dei sistemi fiscali, obiettivo non facilmente compatibile con il principio della tassazione progressiva e che solitamente si accompagna alla proposta di ridurre le aliquote massime dell’imposta sul reddito, è facile prevedere che il conto delle crisi recenti finirà per gravare sui più abbienti in misura molto contenuta rispetto a quanto sarebbe stato normale in passato. I ricchi, però, non dovrebbero rallegrarsi, perché la storia insegna che, quando sono venuti meno al loro ruolo di aiutare la comunità in tempo di crisi o perlomeno quando sono stati percepiti come insensibili alle sofferenze altrui, la società gli si è rivoltata contro.

Nelle parole della campagna In Tax We Trust, a cui ha aderito un gruppo internazionale di ultra-ricchi, in definitiva la scelta è: “o tasse, o forconi”. Vi sono molte ragioni storiche per ritenere che tale giudizio, per quanto formulato con una certa durezza, sia fondato — basti pensare alla Rivoluzione Francese, iniziata in un contesto di diffusa povertà seguito a due anni di crisi dei raccolti, e nella diffusa convinzione che la ricca nobiltà ridesse delle sofferenze degli strati più umili. Si tratta, quindi, di un rischio di cui dobbiamo essere consapevoli e agire di conseguenza, con saggezza e solidarietà, nell’interesse di tutti.

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