L’avvocata Ilaria Boiano: “Si indaga se ha resistito o meno ma così sul banco degli imputati finisce chi ha subito la violenza”

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«Siamo ancora a “Processo per stupro” quarantaquattro anni dopo? La difesa dei violentatori che chiama in causa la “mancata reazione durante il rapporto orale”, per dimostrare che quello stupro fosse in realtà un rapporto consenziente. Sembra di riascoltare le incredibili parole che pronunciò l’avvocato del violentatore, secondo il quale sarebbe bastato “un morsetto” della ragazza per far cessare l’aggressione». Ilaria Boiano, avvocata dell’associazione “Differenza donna” che difende e sostiene le vittime di violenza, non fa sconti. In aula a Tempio Pausania, durante le udienze sullo stupro di gruppo per il quale sono indagati Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia, «ancora una volta invece di indagare sull’imputato si punta a colpevolizzare la vittima». Esattamente come mezzo secolo fa, quando per la prima volta un processo per stupro fu filmato e trasmesso in televisione. Era il 1979, la ragazza violentata si chiamava Fiorella, l’avvocata era Tina Lagostena Bassi.

Avvocata Boiano, sono legittime queste domande? Slip, morsi, reazioni fisica durante lo stupro?

«È legittimo fare domande che aiutino a ricostruire la dinamica del fatto. Non è legittimo invece cercare di spostare il focus dalla responsabilità dell’aggressore alla resistenza o meno della vittima».

La questione del morso appunto. Alla ragazza è stato chiesto precisamente perché non si fosse difesa dall’imposizione del rapporto orale con un morso».

«Capite? Siamo ancora lì, a “Processo per stupro”. Abbiamo sentenze enormemente innovative in Cassazione, ma nei tribunali di merito siamo indietro anni luce».

Ma a cosa puntano queste domande? Ad esempio: come le sono stati tolti gli slip? Non è violenza nella violenza?

«La strategia è chiara: constatare se c’è stata resistenza da parte della vittima. Se la donna non riesce a dimostrare di aver reagito, queste le tesi dei difensori degli stupratori, vuol dire che c’era consenso e dunque non si tratta di violenza. Ma noi sappiamo benissimo che in queste situazioni le donne si paralizzano, non gridano, non si muovono, perché la paura è quella di essere ammazzate. Può mai essere considerato consenso quello di una ragazza che subisce un atto sessuale con violenza e non morde o non resiste, semplicemente perché sa che potrebbe anche essere ammazzata?».

Dunque, scusi la franchezza, se lo slip è strappato si tratta di violenza, se è integro c’è stato consenso?

«Forse l’equazione non è così diretta ma la filosofia è quella».

Sembra la famosa sentenza della Cassazione per la quale se una donna indossava i jeans non poteva essere stata stuprata, vista la difficoltà di sfilare dei pantaloni così stretti.

«La cosa grave, ripeto, è che nei casi di stupro si continui a indagare sulla reazione, anche fisica, della vittima, piuttosto che sulle azioni dell’imputato. Questo sovverte la logica del processo, con la vittima che finisce sul banco degli imputati. Addirittura la strategia consiste nell’indagare su cosa abbia provato chi subisce lo stupro, come abbia reagito il suo corpo. Sempre per spostare il focus sul consenso o, figuriamoci, del piacere».

Ieri come oggi le donne faticano ad essere credute nei tribunali?

«Sì, anche se molto è stato fatto. Ma come dimostra questo processo la strada è ancora lunga».

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