Ofir, ex ostaggio di Hamas: “Ho visto i morti per strada. E venti minuti dopo ero a Gaza, rinchiuso in una stanza”

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TEL AVIV — Ofir Engel ha perso sei chili, per il resto arriva con la camminata tranquilla e i capelli tagliati di fresco da giocatore di basket che ha da poco compiuto diciotto anni, con al fianco la sua ragazza Yuval. Ha la faccia un po’ spaesata. Il 7 ottobre è partito da Gerusalemme ed è andato a trovare lei, che abitava nel kibbutz Be’eri. Hamas lo ha catturato assieme al padre di Yuval, che ha 51 anni e si chiama Yossi, e al figlio del vicino, Amit Shani di 16 anni, che in Italia è diventato “l’ostaggio juventino”. Li ha tenuti per 54 giorni dentro una piccola stanza e poi sei giorni fa li ha separati: lui e Amit liberi, Yossi resta ostaggio da solo. Lui ha fatto i 18 anni durante il rapimento e per questo non era stato messo da Hamas nella categoria “maschi in età militare”, la più difficile da liberare con un negoziato.

A tutti gli israeliani usciti dalla prigionia nelle mani di Hamas in qualche nascondiglio sparso nella Striscia di Gaza hanno vietato gli incontri con i giornalisti per evitare che trapelino dettagli importanti. Ci sono ancora 136 ostaggi dentro Gaza, tutti sequestrati il 7 ottobre, e lo Shin Bet – il servizio d’intelligence – che gestisce il problema tenta di tenere sotto un velo di discrezione un argomento che invece appassiona e fa ribollire il Paese. Durante i sette giorni del cessate il fuoco la gente andava a casa prima per seguire la diretta delle liberazioni. Soltanto ieri il governo ha ammesso che aveva pianificato raid militari per fare irruzione in alcuni dei covi dove erano gli ostaggi perché ne aveva individuato la posizione, ma poi ha rinunciato perché le operazioni sarebbero state troppo pericolose. Una solo di loro, una soldata, è stata trovata e liberata nei primi giorni dell’invasione di terra: tutte le altre liberazioni sono arrivate con il cessate il fuoco e le trattative.

Ormai sono cinque giorni che Ofir è fuori. Prima del suo arrivo abbiamo chiesto al padre Yoav se Hamas lo ha maltrattato, il padre ha risposto che i carcerieri hanno picchiato i compagni di prigionia del figlio, Amit e Yossi, ma non suo figlio. «Così mi ha detto, poi magari non vuole dirmi cosa è successo, ho l’impressione che non voglia racontarmi tutto». La risposta di Ofir è diversa.

Ofir che cosa è successo durante la prigionia? Hamas ti ha maltrattato?

«Non mi hanno fatto nulla, non mi hanno torto un capello».

E ai tuoi compagni di prigionia?

«Nemmeno a loro, non sono stati toccati. Soltanto avevamo poco cibo, ce ne davano un po’ alle dieci di mattina e un po’ alla sera».

Eravate dentro a un tunnel?

«No, in una stanza piccola, con una finestra con il vetro color latte che non permetteva di vedere fuori. Fuori dalla porta sentivamo una televisione in arabo, quando la guardavano i nostri carcerieri. Non so che canale fosse. Abbiamo sentito la parola hudna, tregua, diventare sempre più frequente, fino a quando abbiamo sentito i bombardamenti cessare e allora abbiamo capito che la tregua era arrivata davvero. A volte le bombe cadevano così vicine che i muri tremavano. Altri ostaggi però sono stati tenuti giù dentro ai tunnel. Eravamo tutti separati, qualcuno da solo, qualcun’altro a gruppetti, l’ho capito quando ho incontrato gli altri ostaggi prima della liberazione. Ad alcuni è andata male, ad altri è andata bene. A una donna che stava da sola hanno permesso di cucinare e guardare la televisione».

Mentre eri in prigionia hai capito cosa era successo il 7 ottobre?

«Quando ci hanno caricato in macchina abbiamo visto molti uomini di Hamas, si capiva che era successo qualcosa di enorme, poi ho visto tutti i morti per strada. Ma in venti minuti ero già dentro Gaza, il viaggio è stato brevissimo».

Sei stato liberato a Rafah, sul confine egiziano. Hai capito dov’eri durante la prigionia?

«No, il giorno prima della liberazione ci hanno spostato in un altro posto, poi in un altro posto ancora per la notte, e la mattina dopo abbiamo incontrato gli altri ostaggi e abbiamo aspettato tutta la giornata fino a quando siamo stati liberati e ormai era notte». (Hamas ha una procedura organizzata per fare arrivare a tappe gli ostaggi sul luogo dello scambio, in modo da non dare informazioni a Israele, che su Gaza tiene puntato il suo apparato di sorveglianza, ndr).

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Qui il padre interviene: «Se sei la famiglia di un ostaggio ogni sera del cessate il fuoco ti arriva una telefonata per dirti che il nome che aspetti è, oppure non è, sulla lista di quelli che saranno liberati. Per cinque volte ci hanno telefonato per dire che il nome non c’era. Poi ci hanno detto che il nome c’era, ma abbiamo dovuto aspettare fino alla sera successiva per vederlo davvero liberato. E poi siamo arrivati qui in elicottero – indica uno spiazzo dietro all’ospedale».

Ofir, cosa avete fatto per cinquantaquattro giorni?

«Abbiamo parlato e non c’era altro da fare, eravamo spesso al buio».

Sapevate della campagna per fare pressione sul governo Netanyahu, qui fuori, perché si occupasse di più della vostra liberazione?

«No. Quelli di Hamas ci dicevano che nessuno stava facendo nulla, o quasi, soltanto una manifestazione».

Come è avvenuta la separazione con con Yossi, l’ostaggio che è rimasto?

«È stata velocissima, ci hanno fatto uscire dalla stanza, ci hanno messo in un salone con tre sedie, Yossi l’hanno fatto sedere su una, io e Amit su altre due, poi ci hanno detto “voi due tornate” e ci hanno portato via».

Quando Ofir non sente, il padre dice che la cosa che l’ha colpito di più è che il figlio ripete che è tutto ok, che è fortunato, che va tutto bene, come se gli pesasse il privilegio di essere tornato. “Ma non è tutto ok. Non c’è niente di ok in questa storia. Niente».

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