Un dizionario generazionale a cura dei giovani Holden: catfish

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È arrivato, qualche mese fa, dopo una brillante carriera di gestione casi umani, il giorno in cui mi sono convinta: ho scaricato Tinder. Nome, città, fin qui tutto bene. La parte difficile è arrivata qualche secondo dopo: seleziona foto. Così, come se nulla fosse, mi chiedevano di scegliere le foto (minimo tre, come se una non fosse già una tortura) con cui presentarmi al mondo in qualità di single disperata. Ho iniziato a spulciare le foto sul telefono: l’ultima era il selfie scattato la sera prima, inviato alla mia migliore amica. Le occhiaie occupavano tre quarti della faccia, fuse con il mascara colato per colpa dell’acquazzone che mi ero beccata appena uscita dall’ufficio. Capelli fradici spiaccicati sulla fronte, espressione da procione triste. Ecco, quella non l’avrei scelta; ma a dirla tutta le altre non mi sembravano affatto meglio. È stato allora che, presa dalla paura di un futuro di una solitudine popolata da puntate di Masterchef e amiche accoppiate che mi dicono che si sta molto meglio da single (bugiarde maledette), ho iniziato a modificare le foto. Ritocchini, nulla di troppo invasivo: le occhiaie dissolte nei pixel, gli occhi da castani sono diventati verde smeraldo, le labbra appena più turgide e anche le tette da una prima scarsa si sono trasformate in una bella terza ottimista. Ha funzionato: un enorme successo. Ragazzi che mai e poi mai in un bar mi avrebbero rivolto la parola improvvisamente mi chiedevano di uscire a cena. Tra loro anche Giovanni: medico di 33 anni, bello come il sole, un metro e novanta di muscoli e folti riccioli nero ebano.

E così ora sono qui, al tavolino di un ristorante per il nostro primo appuntamento. O meglio, è il secondo ma al primo non è riuscito ad arrivare: emergenza in ospedale. Seduta, a cercare l’incrocio di gambe giusto che valorizzi la caviglia sottile, mi accorgo che è in ritardo e ogni secondo che passa la mia ansia cresce: oggi vedrà che non ho gli occhi verdi né le tette grosse. Non gli piacerò come sono, già lo sento. Forse mi ha già visto e se ne è andato. La solitudine è la giusta punizione per le bugiarde. Sono sul punto di alzarmi per andarmene quando vedo che un tizio mi scruta, in penombra. Mentre si avvicina il mio sguardo mette a fuoco i dettagli. Dai lineamenti esausti sul viso direi che è sui 45, è qualche centimetro più basso di me, i muscoli, se ci sono, si nascondono sotto diversi strati di carne e quando arriva vicino a me, sotto un faretto del bar, risplende e scintilla una bella e lucida pelata. Niente riccioli folti. Mi guarda e sorride beffardo. 

«Hai degli occhi bellissimi», mi dice. Giovanni è un catfish. Giovanni è più catfish di me. Letteralmente “pesce gatto”, con questo termine nel mondo dei social si indica una persona che crea un profilo falso, in cui finge di essere un’altra persona. Non tutti i catfish, però, sono uguali. Nel meraviglioso mondo dell’internet puoi essere chi vuoi, dietro lo schermo. Alcuni di loro sono truffatori la cui specialità è quella di adescare persone vulnerabili per estorcergli denaro, altri sono pedofili che fingendosi ragazzini cercano di ottenere foto delle proprie prede. In molti casi, invece, dietro a un profilo falso si nasconde una persona insicura, forse convinta che, presentando sé stessa per ciò che è, andrebbe incontro a un rifiuto. Spesso la maggior parte di noi è colpevole del reato definito kittenfishing: si aggiunge qualche filtro di troppo, si pubblica una foto di molti anni prima o ci si presenta come dirigenti di multinazionali al posto che magazzinieri. Questo può avvenire anche per quanto riguarda valori morali, sociali o politici. Se sui social ti presenti come l’erede diretto di Greta Thunberg ma mangi solo in piatti di plastica, sei un wokefish. 

I social ci permettono di provare la sensazione meravigliosa di essere trattata come una persona bella e di successo, ovvero: meglio. E tutti ne approfittiamo, almeno un po’. Io mi sono illusa di poter avere una terza senza dover spendere migliaia di euro, Giovanni si è illuso di poter essere trenta centimetri più alto e con una decina di anni in meno. Entrambi ci siamo illusi che nel momento in cui ci saremmo incontrati tutto questo non avrebbe avuto importanza. L’importante è la personalità, no? Beh io ci ho creduto, Giovanni ancora più di me.  


La redazione di Scuola Holden, coordinata da Sarah Barberis, è composta da Margherita Maione e Giada Schiavino del Master biennale, Mirco Spadaro, Carolina Armonti, Federico Croci di Academy, laurea triennale in scrittura.

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