Infanticidio di Pedrengo, Monia Bortolotti chiese aiuto 20 minuti dopo i primi segni di sofferenza del cuore di Mattia: le indagini sul ritardo sospetto

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Venti minuti di ritardo. Tra quando il cuore di Mattia ha iniziato a “soffrire” e l’allarme lanciato dalla madre. Un lasso di tempo lungo, più che sospetto, certificato da un dispositivo medico che era stato impiantato sottopelle al neonato proprio per registrare la sua attività cardiaca. Una precauzione dei medici visto il suo lungo ricovero, appena nato, e visto anche il precedente della sorella Alice, morta a quattro mesi in culla – si diceva allora prima delle indagini e dell’arresto della madre – per soffocamento lo scorso 15 novembre 2021. Su Monia Bortolotti, la madre dei due bimbi accusata di duplice infanticidio a Pedrengo nella Bergamasca, questo è ritenuto un ulteriore indizio di colpevolezza. A riprova, secondo l’accusa, che il suo secondogenito sia morto il 25 ottobre 2022 per «asfissia meccanica acuta da compressione del torace» come ha rivelato poi l’autopsia ma stretto da «un abbraccio fatale» della madre.

Pedrengo, un’infermiera in ospedale aveva salvato il piccolo Mattia, poi ucciso dalla madre dopo le dimissioni

Il ritardo registrato dal dispositivo è un dato investigativo significativo che i carabinieri del nucleo investigativo di Bergamo aveva già sottolineato nell’ordinanza di custodia cautelare che il 4 novembre scorso aveva prescritto il carcere per le 27enne di origini indiane, accusata di aver ucciso i suoi due bambini, prima Alice, 4 mesi, poi Mattia, due mesi. Proprio il secondogenito il 14 settembre 2022, a 21 giorni dalla nascita, fu portato in ospedale. Cianotico. «Forse si è ingozzato, è andato in apnea dopo la poppata» si affannava a dire Monia Bortolotti ai soccorritori dell’ospedale di Bergamo che, quel pomeriggio, avevano salvato il neonato. Gli investigatori ritengono invece che quel giorno fosse stata lei, la madre, a stringerlo troppo, a schiacciarlo, quasi a ucciderlo. Sottoposto a vari esami, venne ritenuto sano, senza particolari problemi di salute o difetti cardiaci. Il 17 ottobre venne dimesso. Cinque giorni dopo morì. Così i medici del reparto di Pediatria dell’ospedale di Bergamo consegnarono ai carabinieri il resoconto dei suoi ultimi battiti, certificati da quella piccola scatola nera che gli avevano impiantato.

La 27enne di origini indiane è in carcere dai primi di gennaio, dopo varie settimane di ospedale, piantonata in Psichiatria dove fu quasi da subito trasferita per il timore di gesti autolesionistici. Se ci resterà o meno, molto dipenderà anche dall’esito della perizia psichiatrica chiesta dal pm Maria Esposito e affidata tra gli altri a Elvezio Pirfo, l’esperto nominato nel processo a carico di Alessia Pifferi, accusata di omicidio volontario della figlia di 18 mesi, abbandonata a casa dalla madre e morta di fame, di sete, di stenti. Il suo avvocato, Luca Bosisio, dopo il doppio rigetto del tribunale del Riesame, ha fatto ricorso in Cassazione per tentare di ottenere per lei una misura meno afflittiva del carcere come i domiciliari.

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