Caso Verdini, il ritorno della corruzione che Meloni aveva rimosso

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Basta la fiducia. Il governo Meloni ci aveva illusi che la corruzione si risolvesse con la deregulation: meno burocrazia, meno controlli, meno intercettazioni. Come ha detto Matteo Salvini nel varare il nuovo codice degli appalti, il consiglio dei ministri “si fida degli imprenditori, dei sindaci, dei professionisti, degli ingegneri, degli architetti, dei geometri…”. Ed ecco che l’abuso d’ufficio va cancellato, nonostante l’Unione europea insista nel ritenerlo uno strumento fondamentale e i magistrati lo considerino il campanello d’allarme sulle mazzette. Ed ecco che le intercettazioni sono da abolire anche per le camarille che si spartiscono i contratti pubblici a suon di favori e bustarelle. E il traffico di influenze, quel reato così astruso da somigliare a un’epidemia, deve essere mutilato. L’Italia del centrodestra al potere non sente il bisogno di gendarmi e pene, perché è all’improvviso diventata virtuosa, capace di spazzare via le ombre di ogni Tangentopoli.

L’inchiesta della procura di Roma dimostra che non è così. Le responsabilità penali saranno valutate dai processi, la cui lunghezza spesso lascia tutto sospeso nella prescrizione: in ogni caso, vale la presunzione di innocenza. Gli atti dell’indagine però ci mostrano una situazione chiara che permetteva a pochi imprenditori di conquistare i contratti statali senza preoccuparsi della concorrenza: appalti delicatissimi, come quelli relativi alla sicurezza delle gallerie. L’azienda di Tommaso Verdini, il cui padre Denis viene descritto come socio occulto retribuito con ventimila euro al mese, riusciva a fornirgli i capitolati in anticipo in modo da formulare offerte imbattibili – in un caso la consegna dei bandi tramite pennetta informatica è stata ricostruita in ogni passaggio – e tutelava le loro pratiche fino all’aggiudicazione. I dirigenti, figure chiave nella gestione di gare da centinaia di milioni, erano pronti ad assecondarli in cambio di promozioni e di nuovi incarichi.

Un triangolo perfetto. La Inver, la sigla di lobby di Verdini, ha fatturato 300 mila euro da tre costruttori e nelle registrazioni si parla di mezzo milione in nero da un quarto cliente. Cifre tutto sommato ragionevoli, perché in ballo ci sono affari colossali: “Ho vinto un accordo quadro da sessanta milioni – dice Fabio Pileri, uno dei partner di Inver, in una conversazione registrata all’indomani delle perquisizioni -, sto bene per i prossimi dieci anni e non me ne frega un cazzo di chi mi sente al telefono…”.

Come in tutte le storie recenti di corruzione, i protagonisti sono i mediatori, trasversali ai partiti come Verdini senior che ha amicizie in ogni schieramento, e i “tecnici” che hanno in mano le procedure: lo stesso Pileri sostiene che a lui “non servono gli amministratori delegati ma i marescialletti” che decidono le pratiche. La politica però è il motore di tutto e le relazioni della famiglia Verdini sono la risorsa della ditta: quelle del passato e quelle del presente. Nell’estate 2022 alcuni imprenditori scindono i contratti con la Inver dopo le prime perquisizioni, poi tornano a implorare il loro aiuto quando giura il governo Meloni. “Guarda caso arrivano dopo che Salvini s’è insediato. Che tempistica, ragazzi. Vergognoso!”, commenta con sarcasmo il solito Pileri. Guarda caso, Matteo Salvini è il ministro da cui oggi dipendono l’Anas e gli appalti stradali. E i reati contestati proseguono fino all’aprile 2023, ma il leader della Lega risulta estraneo all’indagine.

La ragnatela dei Verdini nelle istituzioni è antica. Nel 2022 avevano accesso diretto a figure apicali di Anas e Ferrovie dello Stato, attovagliate con loro nel ristorante di famiglia Pastation nel centro di Roma: c’è la prova che le loro richieste di intercessione per promuovere i funzionari compiacenti venivano accolte. Si tratta dei gruppi statali che stavano già gestendo la fetta più consistente del Pnrr, i fondi da cui dipende il futuro del Paese a cui ora si è aggiunto il progetto faraonico del Ponte sullo Stretto voluto da Salvini. Non solo, i Verdini agli stessi tavoli si consultavano con il sottosegretario leghista all’Economia Freni, all’epoca con Draghi e oggi allo stesso posto con Meloni: il gip definisce “preferenziali e privilegiati” i rapporti con l’uomo di governo, “il quale in più occasioni si è reso disponibile a incontrare i dirigenti Anas su richiesta di Tommaso e Denis Verdini”.

Il nocciolo della questione è semplice. Secondo i magistrati gli incontri con Freni servivano alla trama dei Verdini: permettevano di convincere i manager Anas che sarebbero stati promossi e in cambio questi assegnavano le gare ai loro protetti. “L’impianto è molto chiaro – si autogiudica persino Pileri – , io facevo certe cose… questa è corruzione in cambio di posti…”. Il sottosegretario Freni è laureato in legge ed avvocato: possibile che non se ne sia mai reso conto?

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