Quelle 44mila mamme che lasciano lavoro: “Pochi asili, congedi impari, iniquità salariale e stereotipi di genere”

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Le strade sono due: o riusciamo a dilatare il tempo allungando le ventiquattro ore di cui è fatto un giorno oppure cambiamo paradigma. Se più di 44mila donne madri lavoratrici si sono dimesse nel 2022 per l’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia, carichi retribuiti e carichi di cura, nel Paese in cui già il tasso di occupazione delle madri in Italia è del 58,1 per cento, contro l’80,7 per cento delle donne senza figli, c’è un problema.

Un problema in aumento visto che le dimissioni convalidate dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro sono aumentate del 17,1% rispetto a un anno prima. Il fenomeno, come detto riguarda soprattutto le donne (72,8% dei provvedimenti) e nella maggior parte dei casi (63%) si tratta di neo mamme che tra le motivazioni per cui mollano tutto mettono proprio la fatica nel gestire insieme l’impiego e la cura dei figli. Motivazione, questa, che riguarda invece solo il 7,1% dei padri.

“Non è più il tempo di commentare, ma di dare risposte concrete”, dice la senatrice Pd ed ex segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso.

Roccella: “Un problema di libertà”

Per Eugenia Roccella, ministra della Famiglia, intervenuta oggi a commentare quei dati a Rai Radio 1, “c’è un problema di libertà delle donne nell’essere madri e avere una vita lavorativa. Si ferma la carriera – ha detto la ministra – quando la donna è madre. Ci sono troppe dimissioni all’arrivo del primo figlio, ancora di più con il secondo. Il governo è intervenuto su questo”.

Asili, sostegni e congedi: gli interventi (insufficienti) del governo

Un intervento ancora insufficiente però. Gli asili nido, ad esempio, nel Paese dove i posti – rileva l’Istat – bastano solo per il 28% dei bambini, nella revisione del Piano nazionale di ripresa e resilienza che ha ricevuto il via libera della Commissione europea si certifica che ce ne saranno 100mila in meno del previsto entro il 2025. Con i 530 milioni del decreto Caivano se ne dovrebbero recuperare altri 20mila. L’esecutivo ha promesso di trovare altri 900 milioni, ma la stima totale non andrebbe comunque a coprire il taglio. Francesco Cavallaro, segretario generale Cisal, dice: “Asili nido? Ne occorrono di più e devono costare di meno. Auspichiamo che il complesso degli interventi previsti possano rappresentare una valida risposta a questo grave ritardo sociale del paese”.

Poi c’è il sostegno alla natalità che nella legge di Bilancio scatta a partire dal secondo figlio: una forma di decontribuzione che va a ingrossare le buste paga della mamme lavoratrici. Ma le risorse sono limitate e impattano a lungo termine solo dai tre figli in poi.

Poi c’è il tema del congedo parentale, impari tra madri e padri. “Il gruppo Pd, a prima firma delle senatrici Camusso e D’Elia, ha proposto due emendamenti alla legge di bilancio che superino esattamente queste difficoltà – aggiunge – Riteniamo essenziale attuare il congedo paritario obbligatorio di 5 mesi, per condividere il lavoro di cura e non costringere le lavoratrici a conciliare con se stesse sacrificando progetti e obiettivi sul lavoro”.

“In un altro emendamento – conclude Camusso – affrontiamo il tema specifico delle Commissioni, proponendo che si precedano le dimissioni con percorsi di confronto/conciliazione presso gli uffici del lavoro per definire scegliere forme di flessibilità, anche incentivando le imprese che li scelgono”.

E ancora, aggiunge Cecilia D’Elia, senatrice Pd, “per rimuovere gli ostacoli nell’organizzazione del lavoro che rendono impossibile la conciliazione chiediamo di prevedere un fondo dedicato”.

La sociologa Coin: “I numeri di una sconfitta”

Quei numeri, dice Francesca Coin, sociologa che si occupa di lavoro e disuguaglianze sociali ed autrice del libro Le grandi dimissioni, “rappresentano certamente una sconfitta, che rimanda a una visione dei ruoli di genere fondata ancora sull’idea della donna come nutrice e dell’uomo come breadwinner. In questa situazione, molte donne si sentono costrette a tornare a svolgere il ruolo di cura che è stato loro assegnato storicamente, quando hanno dei figli, anche perché l’iniquità salariale trasforma la rinuncia al lavoro delle donne in una scelta quasi conveniente dal punto di vista dell’economia familiare. In Italia, del resto, l’occupazione femminile è ancora dominata dal precariato e dal lavoro part-time spesso involontario. Questo fa si che di frequente le donne rinuncino al lavoro nel momento in cui hanno figli, perché il salario forte in famiglia resta quello maschile”.

Cosa fare allora? “È urgente ridurre l’iniquità salariale, il gender pay gap, e tutte quelle forme di discriminazione sul luogo di lavoro che fanno sì che la condizione lavorativa delle donne sia caratterizzata da una storica debolezza contrattuale – aggiunge Coin – E poi è necessario introdurre tutti quei servizi che consentono ai padri di avere un ruolo attivo nella genitorialità e alle donne di conciliare vita e lavoro: servizi per l’infanzia, asili nido, e un congedo genitoriale paritario. Servizi che nel Nord Europa sono la norma, ma in Italia ancora no”.

L’attivista della maternità Bubba: “Problema culturale e gravi carenze istituzionali”

“ll problema ha un origine culturale, basti pensare che l’80% del lavoro di cura ricade sulle madri, ma bisogna anche vedere le gravi carenze istituzionali – dice Francesca Bubba, autrice e attivista, che si occupa di maternità – Se le donne fossero davvero libere di disporre della loro salute riproduttiva, se i nidi fosse accessibili a tutte, se lo Stato li trattasse non come un favore che si fa alle donne ma come importantissime misure educative e sociali, allora le donne non sarebbero costrette a dimettersi o ad accettare part-time involontari che comportano anche un demansionamento: donne sovra-formate senza lo stipendio che meritano. Stipendio che a sua volta viene investito per sopperire le carenze istituzionali pagando le baby sitter e la retta degli asili privati. A questo punto, soprattutto al Sud, è chiaro che una donna dica: resto a casa e il figlio me lo cresco io. Una rinuncia che cela un modello da sovvertire”.

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