Giulia è morta, massacrata da un «bravo ragazzo». E io sto con sua sorella, Elena Cecchettin. Che lei sia in piazza o no, oggi (25 novembre) il Circo Massimo è per me tutto suo. Di questo pettirosso da combattimento di 24 anni, che ci ha costretto a guardare dentro al nostro cuore di tenebra. Elena ha avuto la forza di trasformare un dolore incommensurabile in un cambiamento possibile.
La lettera che ha scritto dopo il martirio di Giulia è il “manifesto” di questa Giornata contro la violenza sulle donne. I mostri che molestano, violentano e uccidono non sono malati, ma «figli sani del patriarcato e della cultura dello stupro». E il femminicidio è davvero «un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci protegge».
È talmente giusto, questo atto d’accusa, che Elena è finita subito in Rete, sulla rituale e vomitevole tavola calda per antropofagi che l’ha divorata con odio feroce, come sempre capita a chi mette piedi nel piatto della cattiva coscienza e dell’ipocrisia sociale.
Una folta schiera di benpensanti e manganellatori della destra politico-mediatica si è ribellata, e ha urlato not in my name. Questo prevede il canovaccio della “resilienza patriarcale”, che per negare di esistere si riafferma una volta di più: la reazione indignata del maschio, che strilla “io non sono colpevole di niente”, “la responsabilità penale è personale”, “prendetevela con Filippo Turetta e lasciate stare in pace noi uomini buoni e onesti”, e altre banalità del male.
La verità è un’altra. Malgrado gli sforzi, viviamo ancora immersi in una società sessista e patriarcale, dove l’uomo fatica a uscire dalle gabbie mentali costruite nel tempo per sé e per l’altro sesso. Paghiamo secoli di dottrina cattolica-apostolica-romana, tra Maria-donna-fedele che rimedia al peccato originale di Eva-donna-sleale, bambine cresciute alla virtù dell’obbedienza e mamme forgiate al ruolo di “specie consenziente”.
Scontiamo l’emancipazione libertaria degli Anni Settanta, al di là della quale non abbiamo saputo costruire nuovi modelli sociali e né aggiornare codici valoriali. Patiamo il nulla che ne è seguito: la tv commerciale e il consumo delle menti e dei corpi, il berlusconismo e le veline-olgettine «offerte come vergini al drago», lo scambio immondo “o sesso, o seggio”, l’abuso del Potere elevato a sistema. Poi è arrivato Internet, che ha fatto il resto.
Nei salotti televisivi, per l’occasione ampliati col lettino di Freud, senti improbabili Patrioti-tendenza Lacan dire che “il patriarcato è un’invenzione della sinistra!”, o che “la donna non è mai stata così libera!”. Piccoli farisei del neo-conservatorismo d’accatto.
Dopo aver riempito le loro gazzette di titolacci schifosi tipo “Patata bollente” per Raggi o “Cessa paffutella” per Murgia, ora pensano che basti una bella foto di famiglia con quattro generazioni di donne, per smentire una tradizione patriarcale. O che sia sufficiente “licenziare” via social un tele-fidanzato molestatore seriale, per onorare “il femminismo”. Il fatto è che il dispositivo familiare-patriarcale è davvero sotto attacco, perché l’universo femminile rivendica dignità e libertà.
Così, tra padri in crisi, figli-Edipo e figli-Narciso, nel maschio impaurito e prigioniero del Super-Io innamorato della sua onnipotenza minacciata si produce il cortocircuito psichico che porta all’annientamento della donna, non più madre che accudisce o schiava che ubbidisce.
E questo riguarda tanto i giovani, solitari e interconnessi che riescono a definirsi solo in relazione al possesso esibito della “propria” ragazza. Quanto gli adulti, accecati dall’ira di una lucidissima gelosia distruttrice e del dominio perduto sulla “propria” donna.
Non c’è bisogno di arrivare a Giulia e alla sua vita spezzata, per dire di noi uomini “siamo tutti criminali”. Gli uomini sono criminali anche se non uccidono, ma prevaricano e rifiutano il confronto, controllano le chat e fanno catcalling.
Sono criminali già quando pensano “tu sei mia”, perché quando poi lo dicono è troppo tardi, il danno è fatto e può diventare irreparabile. Sono criminali quando negano parità e diritti in Parlamento e nel lavoro. Sono criminali quando fanno battute sessiste o usano il gender sul web per ferire, irridere, soggiogare. Sono criminali da genitori, quando non vedono il disagio dei figli salvo diventarne sindacalisti se falliscono a scuola o nello sport.
Sono criminali in ufficio, quando mobbizzano le colleghe. Nel cinema e nel teatro, quando ricattano sessualmente le attrici. O in discoteca, quando usano le droghe per estorcere un sì o far finta di non capire che anche in certi momenti un no vale no. Sono criminali i manager delle aziende, che permettono a un uomo di guadagnare il doppio di una donna.
Ma sono criminali anche gli agenti di pubblica sicurezza, che raccolgono le denunce e non agiscono subito perché “uno schiaffo non è ancora uno stupro” (vedi le telefonate al 112 del testimone che aveva visto Filippo colpire Giulia, cui i carabinieri non hanno dato seguito).
Sono criminali anche gli avvocati, che in udienza chiedono alle vittime “lei portava le mutandine?” (vedi il legale di Filippo, che su Facebook scriveva “non capisco che ci facciano delle ragazzine vestite da puttane in giro per il paese”). Sono criminali anche i giudici, che nelle sentenze applicano attenuanti ai maschi assassini vaneggiando di “tempeste emotive innescate dalla partner, giovane e disinibita…” (vedi Patrizia Cadau, 51enne di Oristano, che ha denunciato il marito per 20 anni di botte e ora è a processo per diffamazione, cosicché alla fine “l’onorabilità” del carnefice, lesa dal racconto dei fatti, risulterà superiore a quella della vittima).
Dicono che in Svezia ci siano più femminicidi che da noi. Bella consolazione. Ovunque nel mondo il corpo della donna resta ancora il campo di battaglia, ad uso civico e politico, sul quale il maschio combatte per perpetuare il suo potere. Spesso in nome dell’ideologia, dello Stato etico, della religione.
È giusto che in questa Giornata, insieme a quelle consumate tra i muri di casa, si manifesti anche contro le violenze perpetrate in un “altrove” che ci pare lontano ma non lo è affatto.
Come fanno Marek Halter e Marc Levy, Charlotte Gainsbourg e Anne Hidalgo, che in un appello su Liberation condannano come “femminicidio di massa” anche la strage di Hamas del 7 ottobre, visto che in quel pogrom decine di ragazze sono state spogliate, violentate, deturpate sui genitali e infine smembrate, decapitate, bruciate.
Oppure come dovremmo fare tutti, qui in Occidente, pensando a Mahsa Amini e alle donne iraniane pestate, arrestate, torturate e giustiziate dai Guardiani della Rivoluzione islamica di Ali Khamenei, perché rifiutano il velo e la Sharia.
C’è un immane lavoro da fare. Sappiamo anche qual è: servono prevenzione e educazione, più che repressione e coercizione. Anch’io, come Concita De Gregorio, chiedo a Giorgia Meloni e Elly Schlein di cogliere l’attimo. Finora, al di là degli scambi telefonici, non l’hanno fatto.
La legge sul nuovo Codice Rosso è un pannicello caldo su una ferita che continuerà a sanguinare, e non la cureranno un braccialetto elettronico in più (che non abbiamo) o un “ammonimento del Questore” (che fa quasi ridere).
Il Pacchetto Valditara-Roccella — che prevede corsi di tre mesi una tantum, in orario extrascolastico e su base volontaria — è acqua fresca rispetto alla proposta forte di Paola Cortellesi, che chiede giustamente di introdurre l’educazione affettiva e sessuale tra le materie di studio.
Torno a Elena Cecchettin, e a tutte le donne e gli uomini che manifesteranno a Roma. Le lacrime per Giulia le abbiamo finite, ormai non servono più a niente. La politica smetta di piangere. Cominci ad agire.
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