Petrolio, cosa rischia l’economia mondiale con la guerra Israele-Hamas

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Non c’è niente di buono nel petrolio: puzza, inquina, costa. E porta anche jella: se il prezzo scende è perché l’economia si è fermata; se l’economia cammina, il prezzo sale, rovinando un bel po’ la festa. Il fatto che il prezzo del petrolio sia stato sostanzialmente stabile negli ultimi mesi è, dunque, l’altra faccia del ristagno globale, pronosticato per questo e il prossimo anno. A bocce ferme, la World Bank prevedeva un barile a 90 dollari sino a dicembre e poi una media di 81 dollari nel 2024. Di conserva, l’Outlook della banca stimava un calo del 4,1 per cento dei prezzi delle materie prime per l’anno prossimo, del 5 per cento per i metalli base dell’industria. Anche i prezzi internazionali del cibo erano previsti in discesa. Dopo lo sconquasso della guerra in Ucraina – definita “il maggior shock per le materie prime dagli anni ’70” – una pausa di respiro, sia pure pagata con una economia anemica.

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Ma le bocce non sono rimaste ferme. Il raid di Hamas e il bombardamento di Gaza hanno moltiplicato l”incertezza: siamo, nella definizione della World Bank, “in acque sconosciute”. Geograficamente, questa è l’area più delicata per gli equilibri dell’economia mondiale. Rischiamo un boom dei prezzi delle materie prime, senza neanche la consolazione di una economia vivace. Anzi, rischiamo che si alimenti l’inflazione e si cementi il ristagno: la stagflazione globale.

Al momento, per la verità, non è successo niente. A Gaza cadono le bombe, su Israele i missili, ma il prezzo del petrolio oscilla sugli 85 dollari a barile, dopo un modesto picco a 92, quando Israele ha mosso le truppe alla frontiera. Si è mosso di più il metano, tallone d’Achille dell’Europa, cresciuto di quasi un terzo, ma rimasto pur sempre sotto i 50 euro. Il mercato, insomma, sbadiglia. Ma che succede se il conflitto si allarga?
Nel Medio Oriente ci sono metà delle riserve di petrolio mondiale, si estrae un terzo di tutto il greggio e, attraverso lo stretto di Hormuz (in bilico, se Iran e Arabia saudita dovessero litigare) passa un quinto di tutti i barili destinati al mercato mondiale (e non consumati in patria).

Secondo la World Bank, anche un conflitto sostanzialmente limitato, come la guerra civile in Libia del 2011 o la guerra regionale Iran-Iraq degli anni ’80 farebbe mancare fra il mezzo milione e i 2 milioni di barili di fornitura giornaliera, spingendo i prezzi a ridosso di quota 100. Ma se lo scontro si allargasse e il numero degli attori aumentasse (tipo l’invasione dell’Iraq nel 2003) sottraendo fra i 3 e i 5 milioni di barili, il prezzo schizzerebbe fra i 110 e i 120 dollari. Poi c’è l’ipotesi maxi, quella a cui pensiamo tutti quando compare il rischio-petrolio: l’embargo del 1973, esattamente mezzo secolo fa, anche quello, vedi caso, sulla scia di una guerra con Israele. Risultato? Fra i 6 e gli 8 milioni di barili svaniti dal mercato e il prezzo che sfonda quota 140 dollari, fino ad un picco di 157, quanto basta per parlare non di “domeniche a piedi” come negli anni ’70, ma di settimane a piedi.

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Sono rischi reali? Nessuno degli attori in campo – né Israele, né Hamas – è in grado di prevedere e, ancor meno, controllare il conflitto. Tuttavia, in termini puramente economici il petrolio non è più quella pietra angolare dell’economia di 50 anni fa. Per produrre un euro di Pil, oggi basta il 60 per cento di petrolio in meno. Merito delle rinnovabili e della maggiore efficienza. Non guasta che ci sia anche fornitori alternativi al Medio Oriente: in questi decenni, gli Usa sono passati da grandi importatori a grandi esportatori.
Tranquilli, però, no. Il fotovoltaico, l’eolico, le auto elettriche si stanno allargando a macchia d’olio. Ma, qui ed ora, petrolio e gas assicurano ancora il 55-60 per cento dell’energia mondiale e non usciranno di scena tanto presto. Dita incrociate.

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