Kurt Cobain e Courtney Love: le conseguenze dell’amore

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Non sono bastati trent’anni a scagionare Courtney Love vedova Cobain. Accusata di qualsiasi nefandezza, dal tradimento (avrebbe continuato a frequentare il suo ex, Billy Corgan, frontman degli Smashing Pumpinks, anche dopo l’inizio della sua storia con Kurt), alla bramosia per i soldi, dalla scarsa attenzione per la parabola depressiva del marito alla colpa di averlo iniziato all’eroina.

Per non dire di chi la ritiene addirittura colpevole della morte di lui. Se non proprio autrice materiale – come continua a sostenere il padre di lei, personaggio di epica mostruosità e irriducibile rancore – almeno morale. Nonostante il biglietto di addio lasciato dal musicista, nonostante tutte le prove balistiche che escludono qualsiasi altra possibilità che non sia il suicidio.

E nonostante Kurt Cobain fin da bambino avesse manifestato la sua angoscia di vivere, e da adulto la radicale incapacità di reggere l’urto del successo. Non gli piaceva niente di quello che gli era accaduto da quando i Nirvana erano diventati celeberrimi e ricchissimi. Andava in giro in pigiama, detestava le limousine, provava imbarazzo per ogni privilegio. Appena poteva si faceva qualsiasi droga pur di non doversi occupare di se stesso. Ho perso anche il gusto di essere triste, aveva scritto nel suo diario negli ultimi giorni della sua vita.

Un mese prima della sua morte, a Roma, era finito in ospedale per overdose. Secondo gli amici era stato un tentativo di suicidio fallito. Il 5 aprile 1994 si è sparato un colpo di fucile nella sua casa di Seattle. Il corpo fu ritrovato soltanto tre giorni dopo la morte, nonostante praticamente tutto il mondo lo stesse cercando. Ovunque ma non nel posto più ovvio, a casa sua. Questi sono i fatti, praticamente incontestabili.

Ma a chi importano i fatti quando si possono avere leggende? E Kurt e Courtney – anche lei musicista, leader delle Hole – erano leggendari. Il loro modello erano Sid e Nancy. Ma Sid Vicious sarebbe morto poco dopo la fidanzata Nancy, mentre Courtney Love è sopravvissuta. È soprattutto questo che a Courtney Love non viene ancora perdonato dopo trent’anni: di essere sopravvissuta. Di aver continuato a vivere, suonare, amare, di aver avuto successo, di non aver mai voluto smettere di essere bella. Addirittura più bella da quando, dopo aver salutato la giovinezza e la sua spavalda imperfezione, si è concessa un nuovo viso, chirurgicamente assestato nei volumi, e poi un altro, e un altro ancora. Non è mai stata la vedova che avremmo desiderato, non ci pensava neanche lontanamente.

Eppure, almeno secondo le sue parole, non ha mai smesso di amarlo. Avrei dovuto sposare Edward Norton (con cui ha avuto una lunga storia quando nella sua seconda di infinite vite è diventata un’attrice) ha detto una volta, ma del resto Kurt era morto, che doveva fare? Kurt e Courtney si conobbero chissà come, lei lasciò Billy Corgan e lui prese a dichiarare che l’amore aveva cambiato tutto. Innamorarsi aveva significato dare alla vita un possibilità. Ma non era vero. Perché l’amore non cambia proprio niente, tranne forse per quei pochi minuti in cui dura l’innamoramento. Tre anni è durato il loro amore, e poi la vita deve aver smesso di nuovo di avere senso per lui. Tre anni che si concludono con un colpo di fucile, e forse anche per questo somigliano a un per sempre. Un pozzo profondissimo dal quale abbiamo attinto e continuiamo ad attingere incanto, bellezza, illusioni.

Tre anni cristallizzati in quell’immagine che non riusciamo a toglierci dagli occhi: è il 24 febbraio 1992 e sulla spiaggia di Waikiki alle Hawaii una donnacon un abito bianco e il rossetto rosso tiene sotto braccio un uomo in pigiama con una borsetta guatemalteca a tracolla (sul cui contenuto conviene non soffermarsi). Imbracciano entrambi un mazzo di fiori, ma lui sorride mentre lei ha un’espressione determinata e serena. Sono Kurt e Courtney e si sono appena sposati.

Lei è incinta e l’abito che indossa era appartenuto a Frances Farmer, l’attrice nata a Seattle e molto amata da entrambi (a Frances è dedicato un pezzo dei Nirvana, contenuto nell’album In Utero che uscirà l’anno successivo, e Frances Bean è il nome della loro bambina, che nascerà in agosto e che, incidentalmente, a vent’anni ha sposato un uomo identico a suo padre Kurt).

Che cos’ha di speciale questa foto, perché ne percepiamo ancora la forza numinosa? È una specie di scheggia di futuro piantata nel nostro passato. Tutto quello che stiamo cercando di diventare adesso, loro lo erano già trent’anni fa, e molto meglio di come noi saremmo mai. È il gioco di prestigio che solo le creature leggendarie riescono a fare: essere quello che tutti noi siamo, fare tutto quello che noi facciamo, ma luccicando. Trasformare l’usurato in inedito, l’ovvio in bizzarria, un rito esausto in un gioco divertente.

Come fanno? Col talento, che è il mistero insondabile, la schicchera di corrente che riaccende la luce del mondo. Un talento che non è saper fare musica o cantare, ma sapere prendere l’onda, luccicare. Quella foto somiglia alle infinite immagini degli infiniti matrimoni che conosciamo ma è rovesciata. Gender fluid diciamo adesso. Kurt amava le armi ma detestava la mascolinità degli spaccalegna. Aveva un corpo da ragazzina, portava i capelli lunghi sulle spalle. Courtney era un’epitome di femminilità, ma accanto a lui diventava – o almeno fingeva di esserlo – un patriarca. Si travestivano l’uno dall’altra. Che poi potrebbe anche essere considerata la formula perfetta dell’amore. Mettersi nei panni dell’altro, muoversi come lui, sentire la sua presenza come fosse la nostra. L’empatia, i neuroni specchio, lo specchio di Dorian Gray, quello di Biancaneve… scorgere di fronte a noi qualcosa di vicinissimo in cui ci possiamo trasformare. E quindi capire, e quindi amare.

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Kurt diventa Courtney e Courtney Kurt.Il modo in cui lei lo sorregge, il modo in cui lui sorregge il mazzo di fiori, la pettinatura identica ma soprattutto lo scherno sul sorriso di entrambi. Noi siamo questa cosa favolosa, siamo l’amore, siamo un uomo e una donna che si scambiano i ruoli e i vestiti, siamo quello che ognuno potrebbe essere se avesse meno paura. E lo saremo per sempre.E invece no.

Ad agosto nascerà Frances Bean, nel settembre 1993 uscirà l’ultimo album dei Nirvana. In Utero, che Kurt avrebbe voluto intitolare I Hate Myself and I Want to Die. Pochi mesi più tardi il colpo di fucile. «Elle est retrouvée. / Quoi? – L’Eternité. / C’est la mer allée / Avec le soleil», scriveva Arthur Rimbaud, poeta amatissimo da Kurt Cobain. L’eternità è l’istante in cui si può fare tutto, amare, sposarsi, fare una figlia, morire. Pretendere la durata, come facciamo noi, ci fa desistere da tutto. Noi che non luccichiamo, che non siamo icone di niente, impantanati dentro il tempo. Noi che ci angosciamo perché quel tempo lo sentiamo scorrere con una velocità che ci sgomenta, o al contrario ci sta addosso pesante e inutile come un cappotto stretto. Noi che stiracchiamo la vita fino a ridurla a niente pur di non mollarla, noi che però un dono ce l’abbiamo: sappiamo riconoscere chi è diverso da noi. E le chiamiamo icone. Kurt e Courtney che hanno riso in faccia all’amore mentre quell’amore facevano. E hanno dato all’amore quello che l’amore meritava: Quoi? – L’Eternité.

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