Le voci de L’Aquila dove Meloni si gioca la sfida d’Abruzzo. “Non c’è più nulla”

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L’AQUILA – Con Giustino Parisse tra le pozzanghere di Onna. È nevicato sul Sirente. Si gela. Parisse, giornalista del Centro, scrittore, si attacca alla rete di recinzione e fissa quella che era la sua casa fino al 6 aprile 2009. Non si osa disturbarlo. «Domenico oggi avrebbe 33 anni, Maria Paola 30 anni», sussurra all’improvviso. Poi squadra la fotocamera del cronista. «Gliene avevo regalata una a Domenico, il Natale prima». Onna, frazione dell’Aquila, trecento abitanti, quaranta morti nel terremoto di quindici anni fa. Giustino e la moglie si sono salvati, i figli no. «Io faccio coraggio a mia moglie, e lei a me», dice. «Ma non è più vita». «Lei però vuol parlare di politica, vero?».

Giustino Parisse. Foto di Concetto Vecchio

Il voto in Abruzzo si decide qui, nell’Aquila ferita a morte. Vecchia terra democristiana. Gente buona, colta. Ci sono quattordici librerie per settantamila abitanti. Viene voglia di rileggere Fontamara. È diventato il bunker di Giorgia Meloni, questo è il suo collegio. Fratelli d’Italia esprime il sindaco, Pierluigi Biondi, già militante di CasaPound, rieletto due anni fa al primo turno. Una fetta della classe dirigente meloniana viene da qui. Luciano D’Amico, il candidato della sinistra, è dato avanti nella sua Teramo. A Chieti e Pescara partita apertissima. All’Aquila, invece, la destra è nettamente favorita. Anche se ci sono tre diverse province, Sulmona è differente da Avezzano, ed entrambe non paragonabili, per indole e storia, al capoluogo. Eppure tutte come stregate da Giorgia. Com’è stato possibile?

Se la sinistra vuol vincere deve prendersi l’Aquila domenica. Andiamo a trovare Americo Di Benedetto, detto Chicco, commercialista. Questa storia in fondo è iniziata con lui. Nel 2017 trionfò nelle primarie del Pd, si candidò a sindaco, al primo turno ottenne il 48 per cento, «la domenica del ballottaggio andai a messa, mi salutarono come nuovo sindaco, pacche sulle spalle, faceva caldo, la gente, ritenendo chiusa la partita, disertò le urne. Biondi rimontò. La sua unica ambizione era quella di fare il consigliere comunale, e invece si ritrovò a capo del Comune. Lì era accaduto qualcosa, dentro al Pd, dilaniato dalle faide, ma soprattutto nell’anima della città: qualcosa che ci riporta a oggi, al predominio della destra estrema. Una rottura culturale, politica. Da allora non ci siamo più ripresi, e io due anni dopo ho lasciato il partito».

Americo Di Benedetto. Foto di Concetto Vecchio

Nel pomeriggio lo struscio è stracco. In dieci anni 45 mila giovani hanno lasciato l’Abruzzo. Come in gran parte della provincia meridionale i paesi si spopolano. I trasporti pubblici sono un disastro. Da Roma all’Aquila non c’è la ferrovia. Dall’Aquila a Pescara ci vogliono tre ore. Salvini ha promesso il raddoppio ferroviario della Roma-Pescara, ma all’Aquila sono incavolati perché per loro non c’è mai niente. Incontriamo Natalia Nurzia, l’imprenditrice dei torroni: «Lo sa che hanno tagliato le corse da Fiumicino? Dopo le 22 non si arriva più. L’altro giorno sono andata in ospedale per una visita, c’era una fila chilometrica per poter pagare il ticket. Impossibile farlo online, la gente si era portata la schiscetta per il pranzo».

Natalia Nurzia. Foto di Concetto Vecchio

«Che fare?» scriveva Silone.

«Guardi fuori, è un mortorio», denuncia Nurzia. Il suo bar dà sul corso. «Non c’è più niente, solo l’università. Quella ci salva. Abbiamo un governatore romano e non va bene. Io adoro Luciano D’Alfonso, ha trasformato nel suo Pescarese paesi cecati in centri turistici». Come finisce, chiediamo. «Chissà», sospira. La gente non parla nel suo locale? «Macché, l’aquilano è chiuso, non si espone, qua poi ci conosciamo tutti».

Bussiamo alla bella libreria di Sandro Colacchi, che dal 1938 attira i grandi scrittori italiani. «L’altro giorno è entrato Giuseppe Conte, è salito ammirato nella sala conferenze da cinquanta posti al primo piano, poi ha comprato L’arte a L’Aquila in duecento immagini. Colacchi è un po’ infastidito da questi riflettori accesi per pochi giorni, con i leader che vengono per tirare la volata ai due candidati, «e poi se ne andranno». Infatti, «l’aquilano è fatalista, dice “ma chi te lo fa fare”, o “lascia perdere”. Anche se dopo il terremoto ha dimostrato grande forza d’animo». La sua libreria è stata per dieci anni in un centro commerciale, da cinque è di nuovo nel salotto cittadino. «Chiunque vincerà lo farà per una manciata di voti», è il suo vaticinio.

Sandro Colacchi. Foto di Concetto Vecchio

«Vinciamo noi!», giura Di Benedetto, che da civico appoggia D’Amico. «Il fatto che tutto il centrosinistra sia unito, da Renzi a Fratoianni, è una reazione a questa destra che si vuol prendere tutto. Marsilio è stato il peggior governatore di sempre, il nostro un patto di buongoverno. L’effetto Todde ha motivato anche i più riluttanti. Alessandra Todde è attesa venerdì.

Giustino Parisse ha continuato a vigilare sulla ricostruzione. La scrittura ha forse lenito il dolore. Ha recuperato la sua biblioteca di quindicimila libri. «Le sembra che si possa parlare di modello Aquila se io dopo tre lustri non ho ancora la mia casa? Guardo a questa tragedia dal buco delle mie macerie. Ogni anno scrivo una lettera aperta ai miei figli, sto preparando la prossima». Si assenta un attimo. «Questo è stato il mio destino e questo mi prendo», dice come se parlasse con se stesso.

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