Us Open, l’America scopre la meglio gioventù

Pubblicità
Pubblicità

New York – È il 4 settembre, ma agli Us Open sembra il 4 luglio, festa nazionale degli americani. Una nuova ondata di giovani tennisti statunitensi è protagonista, ancora in gioco, ancora in piedi alla seconda settimana di partite, con la voglia di urlare sotto rete davanti a un punto vincente, come il ragazzino Ben Shelton, capace di battere Tommy Paul, un altro americano, numero 14 del ranking, al quarto set. A fine gara Shelton ha abbracciato l’avversario e poi urlato alla folla, scena che ha mandato in delirio il pubblico che affollava le gradinate dell’Arthur Ashe.

Qui si celebra l’Independence Day del tennis americano. La fine dell’era di Serena Williams non ha prodotto orfani. L’amore per Serena non si è perso, adesso scorre lungo il delta di una decina di ragazzi. L’America si gode la sua new age: vengono dalla Georgia, dalla Florida, da New York, California, Maryland, Illinois, vogliono tutto e lo vogliono subito. Taylor Fritz ha battuto lo svizzero Dominic Stephan Stricker in tre set (7-6 6-4 6-4), Frances Tiafoe ha liquidato l’australiano Rinky Hijikata 6-4 6-1 6-4. Tra le donne, Coco Gauff ha battuto la danese Caroline Wozniacki (6-3 3-6 6-1) e sono andate avanti la Townsed, in coppia con la canadese Fernandez, nel doppio femminile, Pegula e Krajcek in quello misto, così come ancora la Townsend con Shelton in un altro misto.

Il nuovo corso

Erano decenni che gli americani non dominavano le categorie al Grande Slam di casa. Per almeno un altro paio di giorni ci saranno giocatori statunitensi e probabilmente nei prossimi anni li vedremo anche più in là, e per più in là intendiamo in finale. Paul, Fritz, Tiafoe sognavano una storia così una decina d’anni fa quando tifavano per gli Usa dal loro dormitorio in Florida dell’academy nazionale di tennis. Gauff e Shelton avevano appena dieci anni quando immaginavano cosa sarebbe stato giocare e vincere davanti al pubblico di casa. C’era Serena, ma dietro di lei c’era quasi niente. La sinergia che si è creata tra il pubblico degli Us Open, forse il più caciarone tra quelli del Grande Slam, e i giocatori, alimenta un nuovo patriottismo americano. A Parigi cantano la Marsigliese. Agli Open in Australia “Aussie Aussie Aussie, oy oy oy”. A Flushing Meadows sembra di stare al Super Bowl. “È un’atmosfera fantastica – ha commentato Shelton, intervistato in campo subito dopo la vittoria – sento questo amore del pubblico ogni giorno”. Wozniacki era tra le tenniste molto amate dai newyorkesi, ma stavolta aveva di fronte una di casa, Coco, trascinata alla vittoria dai ventimila dell’Ashe al grido di “Go Coco”.

Gauff ha appena diciannove anni, e deve aver pensato che almeno fino a quando ne avrà trenta potrà godere di questa atmosfera travolgente. “Un pubblico come questo – ha ammesso – non ha eguali con quelli degli altri Grande Slam”. Dentro l’Ashe Stadium bisogna starci almeno una volta, per capire cosa significa la spinta del pubblico. È la Bombonera di Buenos Aires ridotta, ribolle a ogni colpo. E un’arena calcistica solo con palline al posto dei palloni. Il Louis Armstrong, che si trova vicino, è più piccolo ma non meno imponente: i diecimila posti a sedere creano un muro umano tipo Westfalenstadion di Dortmund. Nei giorni di magra si sente lo sferragliare del treno che collega il Queens a Manhattan, una cosa alla Pecos Bill. Ma con Tiafoe in campo non se ne è accorto nessuno. C’era solo il grido “Go Big Foe”. E Big Foe è andato.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *