Conte archivia il totem grillino: “Uno vale uno è un messaggio sbagliato”. E riceve gli applausi dell’assemblea lombarda 5S

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Alla fine dello slogan forse più famoso del Movimento 5 Stelle sin dalla sua fondazione, cioè l’uno vale uno, resterà solo la sensazione di un grande equivoco, di una grande leggerezza o illusione collettiva. A dimostrarlo c’è l’applauso che l’assemblea regionale lombarda del M5S, più di 500 persone radunate a Milano, ha tributato a Giuseppe Conte in un passaggio del suo intervento odierno: “Questa cosa che abbiamo detto in passato, ‘uno vale uno’, non significa che se devi assegnare un incarico così complicato e pubblico ci può andare chiunque; questo è un messaggio sbagliato. ‘Uno vale uno’ significa che la nostra deve essere una comunità in cui tutti devono poter contare”.

Conte l’ha addirittura derubricata a ‘questa cosa’. Ma chi si ricorda la canzone inno del M5S, quello dei meetup e dei Vaffa-day? “Ognuno vale uno, ognuno vale uno, ognuno vale uno – Vale, vale uno – Non siamo un partito, non siamo una casta – Siamo cittadini, punto e basta – C’è un Movimento senza capi né padroni – puoi trovarlo sotto la voce non associazioni – una rete di persone in connessione diretta – siamo il popolo del web in diretta con le webcam”. Scritto e pubblicato nel 2010, per molti anni prima di ogni comizio il brano rap veniva sparato a tutto volume. La massa anonima di cittadini arrabbiati contro il sistema eleggeva consiglieri comunali, regionali, deputati e senatori: si definivano ‘portavoce’ per quello, erano solo portatori di una voce, di una volontà decisa attraverso la rete.

Erano tempi incredibili in cui sul blog di Beppe Grillo davvero si teorizzava l’applicazione pratica del concetto, per cui l’eletto non doveva porsi troppe domande, né farle alla propria coscienza, ma seguire le indicazioni degli attivisti ricevuti via internet di fronte a ogni scelta o votazione assembleare. “Uno vale uno quando è consapevole che l’opportunità unica che gli è stata offerta non è per i suoi meriti, ma per servire un Paese alla canna del gas e i suoi disperati cittadini. Quando invece crede di essere diventato onorevole per chissà quali fortune, per chissà quali divine investiture, e usa il progetto di milioni di italiani per promuovere se stesso e assicurarsi un posto al sole, allora è uno che non vale proprio niente”, scriveva Grillo nel 2013 di fronte a un primissimo caso di ribellione all’idea di essere una specie di automa, quello di Adele Gambaro.

Dopodiché le parole di Conte non rappresentano la distruzione di un totem, quello era già stato distrutto a colpi di nuovi statuti con la designazione di capi assoluti, deroghe e contro-deroghe, votazioni plebiscitarie e norme assolute piegate alla contingenza e agli interessi del gruppo dirigente del momento. Così anche sul piano del discorso pubblico, anno dopo anno ci si è allontanati dal parossismo di una impossibile democrazia diretta. Come quando Luigi Di Maio, già dominus dei 5 Stelle, da ministro degli Esteri lo modificò in “uno vale uno ma uno non vale l’altro”, concetto poi ribadito togliendo definitivamente di mezzo anche l’uno vale uno al momento di fare la scissione e fondare Insieme per il futuro nel 2022. “Quella regola non l’ho mai particolarmente apprezzata”, disse quel giorno abbastanza spericolata Carla Ruocco, una dei cinque membri del direttorio del Movimento nominato poco dopo la morte di Gianroberto Casaleggio, quando almeno formalmente la religione non era stata abiurata. Sul piano pratico però sì: Grillo e Casaleggio erano più uguali degli altri, e anche Ruocco (assieme a Di Maio, Alessandro Di Battista, Roberto Fico e Carlo Sibilia, i cinque di quel direttorio) lo era leggermente di più.

Tre anni fa Conte, appena investito dai colonnelli del Movimento del compito di dare un nuovo futuro alle 5 Stelle sbiadite, ribadiva comunque che la stella polare restava quella, l’uno vale uno: “È il fondamento della democrazia, è il traguardo del suffragio universale”. Anche se “quando si tratta di designare il rappresentante del popolo in posizione di rilievo pubblico occorrono innanzitutto persone oneste ma anche con specifiche competenze e, aggiungo, capaci”. Nulla di troppo diverso rispetto al concetto espresso oggi; la differenza sta però nella reazione della cosiddetta base, oggi pienamente consapevole che seppur seducente il claim fondativo, che permise a signor nessuno senza alcuna esperienza pregressa in politica di venire catapultati in Parlamento, era per l’appunto una grande semplificazione. Oppure una chimera, chissà, e per ammetterlo così platealmente a se stessi ci sono voluti quasi 15 anni.

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