Via dalla seta, l’Italia prima al mondo ad uscire dall’accordo con la Cina. Che ha prodotto più danni che benefici

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L’Italia è stata il primo Paese del G7 e il primo Paese fondatore dell’Unione europea ad entrarci. Ed ora è il primo al mondo – in assoluto – ad uscirci. E’ durata quattro anni la partecipazione italiana alla Via della seta cinese, il grande progetto di diplomazia infrastrutturale del presidentissimo Xi Jinping. Tre giorni fa, con una “nota verbale” consegnata via ambasciata al governo cinese, l’esecutivo italiano ha notificato l’interruzione dell’accordo firmato dal governo Conte nel 2019, che altrimenti si sarebbe rinnovato in automatico. La decisione di procedere in sordina – senza comunicazioni ufficiali da una parte o dall’altra, né tantomeno il passaggio parlamentare ipotizzato a un certo punto da Meloni – è chiaramente concordata per minimizzare la risonanza della decisione ed evitare a Pechino di “perdere la faccia”, concetto chiave nell’immaginario – anche diplomatico – cinese. Così come il messaggio del governo italiano sulla volontà di rafforzare la partnership strategica che precedeva quell’intesa. E se le reazioni del regime comunista possono essere imprevedibili, il lavorio diplomatico e le circostanze dovrebbero in effetti aiutare l’Italia ad evitare ritorsioni, considerato che da qualche tempo la Cina – in un periodo di grave difficoltà economica – prova a mostrare agli Stati Uniti, a tutto l’Occidente e alle imprese straniere un’attitudine un po’ meno ostile.

L’Italia esce dalla Via della Seta: la disdetta dell’accordo inviata alla Cina

L’errore di Conte e Di Maio

Di certo fu assai infelice il tempismo di quella firma. Proprio mentre la sfida di potenza tra Stati Uniti e Cina saliva di colpi e anche l’Europa riconsiderava in chiave più realista i suoi rapporti con Pechino. Il governo gialloverde, premier Giuseppe Conte e Luigi Di Maio agli Esteri, vide nella firma del Memorandum una scorciatoia per aumentare i flussi commerciali con la Cina, decisamente inferiori a quelli dei vicini europei. Non ne comprese il valore politico, né preparò la decisione con l’alleato americano. Anche per l’immediata, irritatissima reazione di Washington quell’accordo è rimasto quasi del tutto lettera morta. Non c’è stato alcun investimento cinese nelle infrastrutture italiane, dopo quelli avvenuti con il governo Renzi, né sostanziali collaborazioni nei Paesi terzi, con relative commesse per le imprese italiane. L’esportazione via aereo delle arance siciliane – bella notizia per chi viveva a Pechino – diventò il simbolo dei magri risultati ottenuti governo, visto che neppure gli scambi commerciali con Pechino sono decollati negli anni successivi, e anzi lo squilibrio tra import ed export si è ancora di più sbilanciato a favore della Cina. La Via della seta, del resto, non era un accordo commerciale.

Il grande ripensamento

Già con il Conte bis l’Italia aveva corretto la sua posizione verso la Cina e il ripensamento è stato ancora più strutturale con Mario Draghi. Confermato poi da Meloni, che desiderosa di mettere in mostra le sue credenziali atlantiste aveva assicurato da tempo a Washington l’uscita dall’accordo. Ma litigare con la Cina, secondo economia mondiale, certo non conviene e questa volta il cambio di rotta è stato preparato per mesi. Soprattutto con il viaggio di settembre a Pechino del ministro degli Esteri Tajani. Vari segnali suggeriscono che la strategia abbia funzionato. E’ di pochi giorni fa una visita ufficiale della ministra dell’Istruzione Bernini, che ha rinnovato un accordo di cooperazione bilaterale tra università. E anche se l’ipotizzato viaggio della premier Meloni – invitata da Xi Jinping – è slittato e per ora non riprogrammato, all’inizio del prossimo anno ci sarà quello del presidente della Repubblica Mattarella, in occasione del 700esimo anniversario della morte di Marco Polo. Altro segnale di non ostilità è che la Cina abbia inserito l’Italia tra i Paesi a cui è stato concesso un regime speciale che permette l’ingresso fino a 15 giorni senza visto. Infine, almeno per ora, le penne nazionaliste di regime sono state tenute al guinzaglio.

La nuova, nuova Via della seta

Il danno per la Cina c’è, se non altro perché il caso italiano mostra che dalla Via della seta si può uscire. Ma Pechino aveva capito da tempo che dal rapporto con l’Italia non avrebbe ottenuto quello che voleva, cioè condizionare l’attitudine complessiva dell’Europa nei suoi confronti. Nel frattempo la Via della seta di Xi Jinping, che ha appena compiuto dieci anni, ha subito un sostanziale ripensamento. Più prudente, dopo investimenti miliardari che hanno prodotto un discreto numero di cattedrali nel deserto, e infilato Pechino in spinose ristrutturazioni di debiti pubblici. E più mirata sulle aree strategiche, Africa e ancora di più Sudest asiatico, lungo quel pacifico dove si gioca la sfida di influenza e di potenza con gli Stati Uniti. Il corridoio terrestre verso l’Europa dell’Est passa da territori che sono tornati pieni di guerre.

La faccia buona

E un ripensamento da parte della leadership cinese – non è chiaro se tattico o strategico – è in corso anche nei rapporti internazionali: dal viaggio di Xi a San Francisco, che ha messo almeno un freno al precipitare delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, alla riapertura dell’import di prodotti australiani, che erano stati bloccati per ritorsione durante la pandemia, all’alleggerimento delle pressioni sulla Lituania, “punita” per aver rinsaldato i rapporti con Taiwan. In questo disgelo diplomatico va fatto rientrare anche l’arrivo a Pechino, oggi, della presidente della Commissione Von der Leyen e del presidente del Consiglio Michel, per il vertice bilaterale Europa-Cina. La Ue ha appena introdotto un nuovo strumento anti-coercizione pensato proprio per evitare le rappresaglie commerciali cinesi (l’Italia, in teoria, ne potrebbe chiedere l’attivazione se necessario) e minaccia di lanciare un’indagine sui sussidi cinesi al settore delle auto elettriche. Gli analisti attribuiscono questo cambio di tonalità alle difficoltà economiche che la Cina sta vivendo, acuite dalla stretta politica sul settore privato varata dalla leadership durante e dopo la pandemia. La crisi di fiducia è grande e la priorità di Pechino, ora, è provare a rasserenare i rapporti internazionali per concentrarsi sul rilancio domestico.

Italia–Cina, anno uno

Quanto ai rapporti economici tra Italia e Cina, si torna al punto di partenza: se non l’anno zero, diciamo l’anno uno considerata la distanza di export e investimenti rispetto a Francia e Germania. Con in più la consapevolezza che la grande occasione di saltare sul treno del turbosviluppo del Dragone sembra ormai passata, da tempo. La Cina resta un mercato enorme dalle straordinarie opportunità, ma sempre più concorrenziale e sempre più rischioso, per ragioni economiche, politiche e geopolitiche. Il piccolo gruppo di aziende italiane che ci sono già resteranno, gli altri difficilmente si azzarderanno a entrarci nel prossimo futuro.

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