Medici e infermieri a lezioni di judo: “Aggressioni continue. La sanità non funziona e i pazienti se la prendono con noi”

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Fernanda, infermiera del Policlinico Umberto I di Roma, tira un pugno e poi un calcio con tutta la sua forza. “Qui da noi si tocca la decadenza della sanità italiana” sbuffa. “Ai pazienti che montavano l’holter dovevo chiedere di portarsi da casa la reticella per il petto. E loro a volte ci insultavano”.

Valentina, ostetrica al pronto soccorso, fa pratica assestando gomitate grintose alle costole, poi si ferma col fiatone e racconta: “Di recente una paziente mi ha riempito di parolacce e minacciato col casco. Quando mi sono chiusa in una stanza ha tentato di sfondare la porta. Allora ho detto basta e mi sono iscritta a questo corso di autodifesa in ospedale”.

Elena, dottoressa a medicina interna, è accanto a lei a terra distesa su un fianco e sferra calci. Qualche giorno fa in corsia aveva schivato una fiala di fisiologica lanciata da una paziente. “Ero andata a psichiatria per una consulenza. Una volta sono rimasta barricata anch’io per un’ora e mezza in una stanza, con un paziente esagitato fuori”.

Laura, infermiera al day hospital di immunologia, ha dovuto mandar giù gli improperi persino di un paziente che aveva l’ago per l’infusione infilato nel braccio. Ora esegue come da istruzioni la presa al collo e il placcaggio dell’aggressore, impersonato da uno degli istruttori di difesa arruolati dall’ospedale.

Benvenuti al Policlinico Umberto I di Roma. Qui si cura da una parte – con i mezzi limitati che si hanno – e dall’altra si impara a difendersi dalle aggressioni ormai quotidiane di pazienti e parenti. Al “Corso di difesa personale per operatori sanitari” coordinato dal maestro Adolfo Bei e dal campione di judo Michele Vannacci partecipano 5 istruttori e 18 allievi, fra medici e infermieri. Ben 15 sono donne. “La miglior difesa è la fuga”, è l’insegnamento di partenza, ma spesso non basta.

Il corso insegna a bloccare e stendere a terra un aggressore con l’aiuto dei colleghi (a far da cavia sono gli istruttori), a sferrare colpi con la mano aperta per non fare e farsi male con i pugni chiusi, a liberarsi da una presa al polso o al collo, a difendersi con i calci anche quando si è caduti. E poi sempre, non appena possibile, a scappare e chiedere aiuto.

Sanità allo sbando

Vedere in posizione di combattimento Claudio, medico radiologo del reparto di oncologia che non ha fatto in tempo nemmeno a togliersi il camice, col cartellino al bavero, le penne nel taschino e qualche capello bianco, è comunque una metafora di come la nostra sanità stia lottando con le unghie e con i denti per non soccombere.

Nemmeno Ippocrate, nel suo giuramento, poteva immaginare che un giorno i suoi eredi avrebbero dovuto studiare come sferrare calci e pugni per difendersi dai loro pazienti.

“Al pronto soccorso gli alterchi sono almeno due o tre al giorno. Qualche volta si arriva alle mani. Tre giorni fa un paziente ha spintonato un medico. Poco prima un ubriaco si era risvegliato, aveva scoperto che gli erano stati tagliati i vestiti e aveva dato in escandescenze. Molte chiamate arrivano da pediatria. I genitori perdono il controllo più spesso degli altri” racconta un agente del posto di polizia del reparto di emergenza dell’Umberto I, che di recente è stato ampliato per far fronte a tutte le chiamate che arrivano dall’interno del Policlinico.

La piaga delle violenze contro il personale

“La violenza che permea la società è entrata anche fra le nostre mura” aggiunge Giuseppe La Torre, epidemiologo, direttore della Medicina del Lavoro all’università La Sapienza e all’Umberto I. E’ stato lui a organizzare questo corso: “Abbiamo avviato un monitoraggio molto attento delle aggressioni in ospedale e ci siamo accorti di quanto il fenomeno sia grave, non solo nel nostro Policlinico”.

Le violenze contro il personale sanitario sono una piaga in tutta Italia. “Ma l’Umberto I è un posto particolare” commenta Anna, infermiera di pronto soccorso. “Copre un’area centrale di Roma che va dalla stazione Termini ai Parioli”. E non è detto che gli sbandati che vivono accanto ai binari siano pazienti più difficili, rispetto a chi viene dai quartieri altolocati.

Violenza senza classe sociale

“Ricordo un uomo benestante che una notte al pronto soccorso ha preso a schiaffi uno studente. La sua presunta colpa: non fargli vedere il figlio, ubriaco, che aveva avuto un incidente. Mi aveva colpito che il ragazzo che aveva bevuto troppo e quello studente che stava lavorando gratis fossero coetanei”.

Elena, la dottoressa di medicina interna, un giorno si è trovata ad avere a che fare con un intero clan di malavitosi di Ostia che pretendeva di visitare un parente. “Alla nostra richiesta di entrare in pochi, il nonno si è messo a urinare in reparto”, racconta.

Il Covid, nei suoi giorni peggiori, aveva almeno smussato le ostilità. “Ma non ci ha insegnato niente. Decisamente non ne siamo usciti migliori, anzi” commenta Andrea, specialista di malattie infettive, con il viso buono di chi frequenta il corso ma si vede che non farebbe mai del male a nessuno.

Insultati e amareggiati

La rabbia per le violenze subite sfuma allora in amarezza e stanchezza, per decenni di lavoro in ospedali che lavorano con il serbatoio perennemente in riserva. “Il nostro è un sistema sanitario universalistico” riflette l’infettivologo. “Dovrebbe curare tutti, ma non ha più le risorse per farlo e qualcuno si sente lasciato indietro”.

Fernanda, 35 anni di lavoro alle spalle, ha elaborato la sua tecnica: “Conto fino a dieci e aspetto che la rabbia mi passi. I pazienti, abituati ormai al privato, non si rendono conto che il pubblico è diverso. Si sentono clienti. E pretendono. Chi ti ha dato la laurea, non hai voglia di lavorare sono gli insulti più leggeri che ci sentiamo rivolgere tutti i giorni. E la cosa più terribile è che iniziamo a sentirci in colpa noi, di fronte alle cose che non funzionano. Per 1600 euro al mese forse non ce lo meritiamo. Ma da questo purtroppo nessun corso può insegnarci la via di fuga”.

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