Tregua a Gaza, le condizioni di Israele: “Hamas ci dia la lista degli ostaggi vivi”

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Se accordo ci sarà, sarà solo all’ultimo minuto utile. Si capisce solo questo al termine dell’ennesima giornata nei negoziati fra Israele ed Hamas per raggiungere una tregua a Gaza e portare a casa almeno una parte dei 131 ostaggi ancora nella Striscia. Ieri mattina il compromesso sembrava vicinissimo, poi a metà giornata la doccia fredda: la delegazione israeliana non si è recata al Cairo, vista l’assenza di una lista degli ostaggi vivi e di quelli morti che Hamas si era impegnata a consegnare e che invece ancora non c’è. In serata infine un nuovo spiraglio: fonti del gruppo fanno sapere alla stampa araba che l’accordo è ancora possibile “in pochi giorni”.

La scadenza ultima è il 10 marzo, giorno in cui inizia il Ramadan, mese sacro dell’Islam: una data che si teme possa a nuove violenze in Israele (e in particolare a Gerusalemme, dove il contenzioso su chi potrà entrare a pregare sulla Spianata delle Moschee è ancora aperto) e nel mondo arabo. E che l’esercito israeliano si è dato come possibile data per iniziare l’offensiva su Rafah, la piccola area ai confini con l’Egitto dove si concentra la maggior parte degli abitanti di Gaza fuggiti dalle loro case. E dove ieri sono state uccise la maggioranza delle 94 vittime della giornata: la loro morte ha portato il bilancio complessivo dell’offensiva a 30.140 vittime da parte palestinese, due terzi delle quali donne e bambini secondo i dati diffusi dal ministero della Salute della Striscia, che è controllato da Hamas.

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Con la speranza di una svolta al Cairo sono riunite le delegazioni del Qatar, degli Stati Uniti e di Hamas. La lista che tutti attendono è un elemento fondamentale della trattativa: dei 131 ostaggi in mano ad Hamas, Israele ufficialmente ammette che 30 sono morti. Ma la stima reale delle vittime che si fa negli ambienti della sicurezza israeliana è di almeno 50: confermare questo numero ridurrebbe il potenziale di trattativa di Hamas, che sta invece cercando di alzare il numero dei detenuti palestinesi che verrebbero scambiati per ogni ostaggio.

Fra questi, e questo sembra certo, dovrebbero esserci alcuni nomi definiti “pesanti” ovvero condannati per aver preso parte ad azioni che hanno portato alla morte di israeliani: ma non Marwan Barghouti, il detenuto più eccellente che Hamas vorrebbe vedere liberato. L’altro punto del contendere è la durata dello stop ai combattimenti: Israele avrebbe accettato le sei settimane, ma Hamas continuerebbe a pretendere che il cessate il fuoco fosse permanente. «Non metteremo fine alla guerra fino a quando Hamas non sarà smantellata definitivamente», ha ribadito ieri sera il ministro della Difesa Yoav Gallant.

Di tutto questo, dello spettro della fame su Gaza denunciato dalle organizzazioni umanitarie, si discuterà oggi alle Nazioni Unite dove, per la prima volta dalle accuse di complicità di alcuni suoi dipendenti con la strage del 7 ottobre da parte di Israele, interverrà il numero uno dell’Unrwa (agenzia Onu per i profughi palestinesi) Philippe Lazzarini.

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L’altro centro politico della giornata sarà Washington, dove è atterrato ieri l’ex capo dell’opposizione e membro del gabinetto di guerra Benny Gantz. L’uomo che – secondo i sondaggi – prenderebbe facilmente il posto del premier Benjamin Netanyahu se in Israele si votasse oggi è atteso alla Casa Bianca per incontri con il consigliere per la Sicurezza nazionale Jack Sullivan e con la vicepresidente Kamala Harris, che ieri ha parlato di situazione «devastante» a Gaza e ha chiesto un «cessate il fuoco immediato».
L’invito ha profondamente irritato Netanyahu e i suoi alleati di destra: «C’è solo un primo ministro», avrebbe detto il premier all’alleato-rivale prima della sua partenza.

Sullo sfondo la spaccatura sempre più profonda fra il presidente Biden e Netanyahu: l’idea è che la Casa Bianca stia già guardando al dopo-Bibi e che non sia la sola a farlo. Dopo Washington, Gantz volerà a Londra per vedere il ministro degli Esteri britannico David Cameron.

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