Migranti, la cultura delle regole

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Figlio della disperazione politica, giuridicamente sgangherato, e finanziariamente costosissimo, l’accordo tra Roma e Tirana per la costruzione di un centro di oltremare per migranti richiedenti asilo provoca nell’Unione europea la sola reazione possibile. La più ovvia.

La trovata di Giorgia Meloni viene battezzata come un corpo estraneo alla cultura e alle regole politiche che si è data l’Unione. E come tale verrà considerato. A prescindere da quello che ne sarà concretamente il destino. Il “Gruppo di Berlino” lo ha spiegato a porte chiuse al ministro dell’Interno Piantedosi lunedì 4 dicembre. Per le ragioni che ci racconta Claudio Tito.

E, in qualche modo, lo ha reso esplicito anche il direttore generale di Frontex, segnalando come l’Agenzia di frontiera europea «non potrà aiutare l’Albania nel rimpatrio dei migranti» che si troveranno sul suo suolo. Perché le regole europee impediscono che l’Ue proceda a rimpatri da Paesi terzi.

Mentre dunque la nostra presidente del Consiglio, in un’intervista radiofonica, si abbandonava a commenti da bar, sostenendo che «l’accordo con l’Albania non piace alla sinistra, perché la sinistra spera che il governo non risolva il problema dei migranti», l’Unione europea, che è il consesso in cui la premier dovrebbe misurare le politiche del suo governo, le ricordava una cosa più semplice. Naturale per chiunque abbia trascorso anche solo un breve periodo della sua vita in Europa.

Che in uno spazio complesso come quello dell’Unione, fondato su regole che il nostro Paese ha sottoscritto, i pugni sui fianchi e la mascella volitiva di chi delle regole «se ne frega» se non sono «nell’interesse dell’Italia», non spaventano nessuno e non portano da nessuna parte.

Ancora una volta, prigioniera di una dimensione politica schizofrenica che pensa di poter coltivare insieme tanto l’ambizione a sedersi al tavolo dei leader europei quanto la furbizia demagogica ad uso interno di chi si cucina soluzioni in proprio buone (forse) per la campagna elettorale, Meloni misura la distanza incolmabile che continua ad esserci tra la cultura politica del governo che guida e quella dei Paesi di testa dell’Unione. A prescindere dalle maggioranze che li governano.

Una distanza che ripropone la “diversità” del nostro Paese nei suoi termini più deteriori. Quelli “antropologici” dell’italiano che si aggiusta. Che le regole le aggira o se le fa su misura. E che per questo va regolarmente a sbattere.

Quel che è peggio, e come accade a tutte le persone con una smisurata considerazione di se stessi, la premier dimostra di non imparare mai nulla dai propri errori. In poco più di un anno di governo, le iniziative per le politiche migratorie cucinate da Palazzo Chigi si sono infatti tutte regolarmente infrante contro il muro europeo per il segno politico che propongono.

Che non è affatto — come la premier sostiene — l’ambizione di battezzare nuove soluzioni o nuovi modelli di gestione e contenimento dei flussi «da cui l’Europa potrebbe prendere esempio». Ma quella di procedere in solitudine — per giunta su un tema globale come quello delle migrazioni — fuori dalla cornice delle regole. In un mix di ferocia autarchica e bullismo diplomatico.

Si è cominciato, come si ricorderà, pensando di “spezzare le reni” a Parigi, con il diniego di attracco e sbarco alle navi delle Ong battenti bandiera francese. Si è proseguito con l’indicazione di porti sicuri di approdo, per quelle stesse navi, distanti centinaia di miglia dalle zone di soccorso in mare. Per poi avventurarsi in una rissa con Berlino e il suo Parlamento colpevoli di finanziare le Ong tedesche impegnate nelle operazioni di soccorso nel Mediterraneo. Fino alla trovata della detenzione dei migranti in outsourcing in Albania con pagamento cash. Il tutto mentre le cifre degli sbarchi hanno continuato a battere ogni record.

In tutto questo, ancora una volta, la sedicente voce “moderata” della maggioranza di governo risulta non pervenuta. Terrorizzata dal dare anche soltanto l’impressione di voler disturbare la donna sola al comando, Forza Italia, con il suo vicepremier e ministro degli Esteri Tajani, si è pavidamente acconciata alla sua consueta veste di salmeria. Convinta, probabilmente, che questo serva a darle un futuro politico. Che, al contrario, si annuncia sempre più angusto e, soprattutto, irrilevante.

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