Cacicco o capobastone, l’eterna lotta di potere tra partito e territori che divide la sinistra

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Forse non c’è parola che più di “cacicchi” abbia accompagnato trent’anni di lotte di potere dentro la sinistra italiana. Ora è finita in bocca anche a Giuseppe Conte, che l’ha usata contro il Pd dopo i fatti di Bari («Io con Schlein se combatte i cacicchi»), a dimostrazione che peggio della guerra civile c’è solo l’invasione, un colonizzatore che arriva a piantare bandiera sulle macerie.

Cos’è un cacicco? Nel significato originale, in America centrale e meridionale, indica il capo assoluto di una comunità indigena. Nel dibattito pubblico italiano sta per potente locale che fa il bello e il cattivo tempo, senza tetto politico né legge di partito e, se non si fa avanti un altro avente diritto, possiamo attribuire la paternità dell’uso traslato del termine a Massimo D’Alema, che già nel 1997 la scagliò contro la suggestione di un “partito dei sindaci” che ambiva a prendere la guida del centrosinistra. Da quel momento, con protagonisti diversi, lo scontro non si è più fermato. «Volete sfasciare il partito», è di solito l’accusa dal partito nazionale, «il partito lo sfasciate voi», è la tipica replica dai territori.

Da allora cacicco si affianca nel glossario della faida a sinistra ad altri non meno spregiativi termini su chi, in casa sua, comanda più di segretari e dirigenti nazionali: capobastone, termine mutuato dalla governance della mafia, signore delle tessere, campione delle preferenze, ras, un mischione, una confusione mezzo voluta e mezzo no il cui effetto principale è alla lunga cancellare ogni distinzione tra chi fa politica tesserando i morti e chi è ancora capace di prendere voti sul territorio, specialità sconosciuta ormai alla quasi totalità del ceto politico contemporaneo. Essendo il Pd stato fondato nel 2007 e le liste blindate introdotte l’anno precedente con il famigerato Porcellum, i parlamentari dem non hanno grande confidenza con la ricerca del consenso («Non mi candido alla presidenza della Basilicata perché non voglio rompere il patto con gli elettori di Napoli», ha scritto l’ex ministro Roberto Speranza pochi giorni fa, ed essendo stato eletto in una lista bloccata non è chiaro se i napoletani siano a conoscenza del patto). Decaro, uno che ha i voti e il consenso, e che in Puglia sarebbe eletto anche con le mani legate, è un cacicco o un bravo sindaco? La tentazione di molti è non fare troppe distinzioni e, del resto, quando non si ha voglia di cercare la differenza tra Trump e Biden, figuriamoci tra Vito Leccese e l’assessora Maurodinoia.

Nel frattempo siamo arrivati a contare ormai tre generazioni di cacicchi. In principio fu l’era Cacciari, all’epoca sindaco di Venezia, che nei Novanta non perdeva mai occasione per dire che i dirigenti nazionali della sinistra non capivano un tubo, ma lui non diceva esattamente tubo, e rivendicare «io lo dico da trent’anni» («Oggi è il trentennale dalla prima volta che Cacciari ha detto lo dico da trent’anni», formidabile battuta di Stefano Bonaga, che a Bologna non fa il cacicco ma il docente di filosofia). Poi c’è stata l’era Renzi, prima presidente della provincia di Firenze e quindi sindaco del capoluogo, l’unico cacicco cui fin qui è riuscita la scalata nazionale, e che da presidente del Consiglio era così fiero del percorso da lanciare l’idea di una nuova legge elettorale per eleggere “il sindaco d’Italia”, il supercacicco, salvo scoprire che ora è la riforma costituzionale di Giorgia Meloni, solo che si chiama premierato.

Quindi arriva l’era dei governatori ras, modelli insuperati Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, due il cui tasso di consenso con il proprio partito è sempre prossimo allo zero, due ai quali, un po’ per debolezza un po’ per convenienza, è stato sempre consentito fare di tutto. Puglia e Campania sono territori dove lo ius sanguinis è stato sostituito dallo ius soli, decidono De Luca e Emiliano chi ha cittadinanza politica nel loro feudo e in genere sono generosissimi, accolgono tutti, forzisti, leghisti, democristiani di ogni rito, socialisti di destra quando non ci sono più quelli di sinistra, persino esponenti in odore di Casapound. De Luca non accetta consigli da Roma sulla sua terza ricandidatura e alle regionali dell’anno prossimo potrebbe dare il colpo di grazia al Pd, e forse pure alla leadership di Elly Schlein. Emiliano è così geloso del territorio da aver dato il bacio della morte al suo potenziale successore in Regione, anche qui si vota l’anno prossimo, cioè lo stesso Decaro, «l’ho creato io», ha rivendicato in una intervista al Corsera, variabile appena dissimulata di io t’ho fatto e io ti distruggo, e se la prima parte dell’affermazione è discutibile, la seconda appare in via di realizzazione.

Il cacicco non ama interferenze, e per questo sta sempre un po’ dentro e un po’ fuori, sopra e sotto, più sopra. Tra alti e bassi, c’è stato Rosario Crocetta in Sicilia, Mario Oliverio in Calabria, i fratelli Pittella in Basilicata, Gianni e Marcello, poi passati entrambi a Azione. Forse non è un caso che in Piemonte, dove si vota per le regionali a giugno ed è appena scoppiato un altro bubbone, quello sulle manovre del capobastone Salvatore Gallo, il Pd abbia fatto fatica a trovare un candidato condiviso dalle correnti più che a cercarne uno insieme al M5S, operazione comunque fallita. Nel Pd romano, che Fabrizio Barca definì in una famosa relazione «dannoso, cattivo, pericoloso», la guerra per bande ha perso da anni qualsiasi aggancio con la provenienza da culture politiche diverse. Gli stessi cacicchi sono stati tutto e il suo contrario, renziani e antirenziani, bersaniani e antibersaniani, e i loro avversari nazionali, in fondo, pure. Quando Massimo D’Alema decise di andare via dal Pd in polemica con Renzi, a chi offrì la leadership del partito nato dalla scissione? Al cacicco Emiliano. Il quale prima accettò, poi nottetempo ci ripensò: meglio ras locale in un partito grande che capo nazionale di un partitino.

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