Ama (Non Mama)

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Chi dorme, o così vorrebbe, in quelle zone centrali di Roma dove la spazzatura non viene portata (in spazzaturese: “conferita”) ai cassonetti ma ritirata porta a porta è abituato a ricevere colpi di citofono che per le abitudini locali risultano molto mattinieri, per esempio alle sette. Chi risponde sa già che, non appena sollevato e anche senza aver chiesto ritualmente”Chi è?”, il ricevitore riporterà dal pianoterra una voce imperiosa, tale cioè da segnalare e sottolineare con decibel e tono quale dei due occasionali interlocutori è il solo già ben desto. Dirà e anzi esclamerà, proclamerà, acclamerà soltanto tre fonemi: “Ama!”. Non si tratta di un precetto cristiano comunicato da zelanti predicatori a domicilio: è l’acronimo dell’Azienda Municipale Ambiente che viene scandito perché all’operatore sia consentito, tramite apertura da remoto del portone, di prelevare dai contenitori condominiali i sacchi della raccolta differenziata dei rifiuti. Ama?

Nella città in cui Catullo e Lesbia intrecciarono la loro controversa relazione, e il cui centro storico è cosparso di targhe già plurisecolari che ammoniscono a “Non fare il monnezzaro”, tra l'”odi” e l'”amo” la levataccia forzata fa spesso propendere più per il primo che per il secondo, anche senza bisogno di far mente locale sull’entità della relativa tassa municipale. Ma non divaghiamo oltre: si era partiti per parlare non di immondizia ma di Sanremo. Il bisillabo del titolo ha infatti una terza accezione, che rischia di essere al momento la più popolare di tutte: Ama non come voce del verbo, non come acronimo municipale bensì come ipocoristico (per intenderci: accorciativo) di Amadeus.

Certo meno sorprendente di quella professionale, la storia onomastica di Amedeo Sebastiani (Ravenna, 1962) è comunque di un certo interesse. I nomi con cui il valido presentatore compare su Wikipedia sono “Amedeo Umberto Rita”, cosa che se Rita fosse da intendersi come ipocoristico (sì, accorciativo) di Margherita lascerebbe pensare a qualche ispirazione un po’ savoiarda in famiglia. Ma magari è tutto un caso. Avviatosi ancora nella sua teen age alla carriera di conduttore radiofonico, aver rapidamente percorso un gradino dopo l’altro lo portò presto al cospetto del pontefice massimo della radiofonia dell’epoca, e cioè Claudio Cecchetto. Costui aveva fondato la sua Radio Deejay nel 1982, all’insegna del motto “In poche parole tanta musica” che non consente di sospettare quanti chiacchieroni, e quanto formidabili, vi furono poi formati.

L’anglomania giovanile entrava allora nella sua fase decisamente dilagante, non essendo più frenata dalle sue dubbie connotazioni politiche: al posto del Vietnam, Tony Manero, Indiana Jones, Rambo e l’edonismo reaganiano. Anche in Italia nessun nome radiofonico doveva ricordare le sonorità della lingua nazionale, tantomeno – per carità – l’epoca savoiarda e deamicisiana. Virginio divenne allora Gerry (Scotti), Pasquale Di Molfetta divenne Linus, Stefano Zandri divenne Den Harrow sino a Lorenzo Cherubini, di cui è superfluo ricordare il nome d’arte (e che è forse l’unico che è riuscito a recuperare quello originario). In questa temperie un Amedeo non poteva certo restare tale come mamma lo aveva nominato. Alla fantasia onomastica e ribattesimale del pontefice Cecchetto non servì un grosso sforzo. Eh già, diranno i cinefili-melomani: nel 1984 era uscito il celeberrimo film di Miloš Forman, benedetto da otto Oscar e da una popolarità tuttora rigogliosa. Vero ma non del tutto corretto: nella trasformazione da Amedeo Sebastiani in Amadeus a contare fu soprattutto il successo nel 1985 di “Rock me Amadeus “, una canzone pop del cantante austriaco Falco, altro epifenomeno del successo del film di Forman.

Sono tragitti di semplificazione e articolazione progressiva, che si possono immaginare come ardite percorrenze à la Tarzan tra gli intrichi della jungla della fantasia onomastica. Vicino al nome di Amedeo Sebastiani pendeva la liana di Amadeus, fatta ciondolare da Forman, che a sua volta l’aveva abbracciata da un testo teatrale di Peter Shaffer che a sua volta reintitolava con il secondo nome di Wolfgang Mozart un’operina di Aleksandr Puškin che si era immaginato una drammatica rivalità di Salieri nei confronti di Mozart. Questo secondo nome, peraltro, era la traduzione e sublimazione latina del secondo nome originario del compositore, che era il quasi-greco Theophilus o anche, in tedesco, Gottlieb. Mozart si firmava Amadeus: Amadeus si avviava così a diventare il brand della più prodigiosa e squisita sensibilità e produttività musicale di sempre, elaborazione di industria culturale segnalata dal passaggio dell’antroponimo a titolo di opere biografiche.

Acquisita perciò una relativa autonomia dalla biografia reale del compositore, biografia ormai oggetto di fantasticherie drammaturgiche e mitizzazioni filmiche o se si potesse dir così biopiche, il nome era pronto a rendere assoluta quella autonomia applicando la già preziosa etichetta di Amadeus a una canzone di genere del tutto antipodale a quello del più illustre connazionale del cantante Falco (il cui nome deriva da un altro tragitto su liane, tragitto che non seguiremo). Dopo che Falco aveva descritto Mozart come un punk ante litteram a cui tutte le donne chiedevano “rock me”, il nome Amadeus era perfettamente depurato da ogni addentellato sensatamente mozartiano. Quando Cecchetto ha carpito la liana per porgerla al suo protetto Sebastiani, con il mero pretesto della corrispondenza tra “Amadeus” e “Amedeo” nessuno ha pensato più alle Nozze di Figaro. E Amadeus fu “lanciato sul mercato” (come avrebbero detto Cochi e Renato). Un capitoletto di aggiornamento a questa storia avviene nei nostri anni, quando “Amadeus” ha perso il “deus” ed è rimasto “Ama”, si direbbe soprattutto a opera del suo amico Fiorello.

Un presentatore di Sanremo deve avere e non avere carisma, allo stesso tempo. Amadeus ne è personalmente sprovvisto ma è invece provvisto di un instancabile e creativo fornitore di carisma, che è appunto il suo amico Fiorello: il quale magnifica le doti di Amadeus anche minimizzandone il nome d’arte in Ama. “Amadeus” è ancora un nome: un nome proprio vero e proprio. “Ama” ha ancora funzioni di appellativo (quando qualcuno dice “Ama”, Amadeus si volta) ma si trova ridotto ai termini di un frammento linguistico pronto a mescolarsi, confondersi, ibridarsi con l’imperativo biblico, con la nettezza urbana capitolina, con M’ama non m’ama, con BigMama, con Amarcord, Amaretto, Amalfi, Amazon, BananarAma, AlabAma. Ancora un paio di sanremi e Amedeo Sebastini/Amadeus/Ama diverrebbe A. Come un corpo che si riduca a cellulla, molecola, atomo e infine particella subatomica l’identità onomastica tende ad assottigliarsi, scomporsi nei suoi elementi primordiali, sotto la pressione della ripetizione. Sei sulla bocca di tutti, il tuo nome risuona a ogni angolo di strada. È così che funziona la fAma, Ama.


Questa è Lapsus dell’11 febbraio 2024, la rubrica di Stefano Bartezzaghi sulle parole del momento

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