Palestina, dagli atti di coraggio la strada per la pace

Pubblicità
Pubblicità

Pace e sicurezza sono le due facce di una stessa medaglia. Il loro contrario lo conosciamo bene e anche loro, guerra e insicurezza, fanno il paio. Seguono altre coppie, quali occupazione e resistenza, attacco e autodifesa, che in forme diverse applicano sempre la medesima regola: alla violenza contrappongono la violenza. È un legame difficile da recidere. Ci vuole più che un tocco di sventatezza, ci vuole coraggio. Anticipare l’idea di un cambiamento espone chi ne ha avuto l’intuizione all’accusa di tradire i suoi. Ce ne parlava Amos Oz, ce lo ha ricordato Fernando Gentilini sulle pagine di questo quotidiano.

La capacità di scardinare ogni certezza acquisita è però una dote di pochi. Rinunciare a quelli che sono i nostri consolidati punti di riferimento fa paura, piuttosto li subiamo, per quanto viziati e sgradevoli.

Non è un caso che anche nel conflitto israelo-palestinese siano spesso proprio quelli la cui vita è stata segnata in modo drammatico e indelebile a rinunciare a fare i conti con chi ha violato la loro pace. L’alternativa alla contrapposizione del noi contro loro troppo spesso, purtroppo, si rivela quando rimaniamo spiazzati dal vuoto che la perdita di una persona cara lascia. Come in Apeirogon, la storia vera di Rami e Bassam, due padri, uno israeliano e l’altro palestinese, che perdono ognuno una figlia amata nel conflitto e si incontrano in Combatants for Peace, un’organizzazione di ex combattenti ora uniti nella ricerca della pace.

Medioriente, bisogna tradire per fare la pace

Ma Rami e Bassam non sono soli, sono centinaia di migliaia i palestinesi e gli israeliani, che lottano uniti dal desiderio di costruire la pace, all’insegna della giustizia e dell’uguaglianza, attraverso iniziative di cooperazione e dialogo.

Questa è la resistenza, quella di chi vuole la pace, sebbene le condizioni ad essa favorevoli siano più deboli che mai. Il sostegno alla soluzione dei due Stati è diminuito in modo significativo, mentre è aumentata la percentuale di chi nega la legittimità dell’altro. I giovani, sia palestinesi che israeliani, ritengono che l’intento ultimo della controparte sia la rimozione dei propri diritti o la distruzione della propria società, e questo soprattutto perché sono proprio loro, i più giovani, a non aver mai avuto un contatto umano diretto con l’altro. Il muro e le politiche di separazione hanno reso questi due popoli non semplicemente nemici, ma perfetti sconosciuti. È morto l’aspetto umano, quello che permette alle persone di riconoscere la dignità dell’altro, condizione fondamentale per costruire la fiducia e l’empatia, che a loro volta favoriscono l’apertura al dialogo.

D’altra parte, l’emancipazione di questi due popoli sarà possibile solo se sapranno trovare nella riconciliazione il principio guida di una nuova educazione politica, liberando non una, ma due nazioni di fatto sottomesse alla logica della guerra perenne.

L’odio che non distingue: israeliani e palestinesi nemici senza tregua

Hillel Schenker, co-editore del Palestine-Israel Journal, nel 2017 avanzò alcune ipotesi interessanti rispetto alla primitività di questo conflitto alla luce degli elementi innovativi che permisero invece all’Irlanda del Nord e il Sudafrica di raggiungere una risoluzione.

Innanzitutto, in entrambi quei casi, la natura dello scontro era per lo più laica. In Palestina-Israele, invece, negli anni, la componente religiosa ha preso il sopravvento, dando sempre maggior spazio ad una narrativa fondamentalista e fanatica, che attribuendo sia aspirazioni che giustificazioni religiose allo scontro, lo complicano.

In aggiunta, mentre la comunità internazionale giocò un ruolo cruciale nei casi di Irlanda e Sudafrica, in questo conflitto si vanno creando schieramenti a favore degli uni o degli altri, invece che a sostegno della pace in quanto fine supremo.

Besan e Ruba, il dolore doppio di due ragazze gemelle a Gaza

È infatti vero che sebbene la società civile e le organizzazioni guidate da donne siano entrambi indubbi punti di forza nella risoluzione dei conflitti, questi ultimi vengono colpevolmente sostenuti molto poco rispetto alle controparti più guerrafondaie di entrambe le società. I finanziamenti internazionali a Hamas e all’esercito israeliano superano infatti di gran lunga quelli destinati alla società civile, sebbene il disarmo di ambo i lati rappresenti un obiettivo cruciale in vista della pace.

Restano a questo punto due componenti significative: una, forse più scontata, e sfortunatamente molto compromessa sia in Israele che nei territori, è la questione della leadership; l’altra, meno ovvia, eppure essenziale, è rappresentata dal ruolo della diaspora. Nel contesto israelo-palestinese, parti significative di chi vive all’estero hanno avuto finora la tendenza ad assumere una posizione aggressiva, anziché contribuire ad un depotenziamento del conflitto.

Eppure, per quanto sembri insanabile, solo se sapremo farci carico, anche noi, delle urgenze che vanno criticamente individuate, isolando i guasti, superando le logiche dei bilanci e delle ripicche, pur di sostenere la pace, sarà possibile una risoluzione. Diceva Mandela, quando nessuno ci credeva ancora, che bisogna essere capaci di sognare.

Pubblicità

Pubblicità

Go to Source

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *