Il corpo delle donne, cronaca di una violenza non annunciata

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Nonostante io sia piuttosto immune alla bellezza fisica, quando avevo 24 anni mi sono presa una cotta per un ragazzo il cui unico attributo degno di nota era una bellezza stupefacente. Lo avevo conosciuto a un concerto, e dopo una comunicazione epistolare altamente frustrante (era, appunto, tanto perfetto esteriormente quanto desertico interiormente) siamo andati a bere qualcosa insieme a San Lorenzo. Poi ci siamo diretti a casa mia.

Io reggo male l’alcol, e nonostante non avessi bevuto poi tanto ero completamente ubriaca. Mi ero stesa sul letto, avevamo iniziato a baciarci, ma io mi ero subito resa conto — nel modo schietto ed elementare in cui il corpo è in grado di donarci consapevolezza — che non ce l’avrei fatta: non potevo affidarmi fisicamente a un cretino, per quanto affascinante. Così, abbiamo smesso. Lui si è sfilato il profilattico che gli avevo detto essere imprescindibile, e io ho chiuso gli occhi. A quel punto, travolta dalla sbornia, ero caduta in uno stato di semi-coscienza. È stato allora che “abbiamo fatto sesso”: le virgolette sono qui a sottolineare il limbo in cui si trova tuttora, nella mia mente, quest’esperienza.

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Non mi rendevo conto pienamente di quanto accadeva. Così, quando lui ha eiaculato in me con la nonchalance di chi sputa una gomma nel bidone più vicino, mi sono innanzitutto stupita: stupita dell’avvenimento, di quel versamento che lì per lì sentivo slegato dall’esperienza, visto che all’esperienza non avevo realmente partecipato. Solo un istante dopo ho capito che avevamo “fatto sesso” (di nuovo le virgolette), e che lui non si era preoccupato di indossare un profilattico, perché tanto io non ero cosciente. Come stesse utilizzando un orinatoio, un sacchetto per il vomito, un contenitore incosciente di necessità primordiali. Lì per lì, però, non ho provato rabbia: noi donne veniamo ancora educate a non infuriarci in queste circostanze, a giustificare con materna abnegazione eventuali derive degli impulsi maschili.

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L’indomani sono andata in un consultorio a chiedere la pillola del giorno dopo. La donna che mi ha ricevuto mi ha trattata malissimo, accusandomi tra le righe di essere una ragazza di facili costumi. A nulla è servito rispondere che non ero come mi dipingeva; ancor meno sarebbe servito spiegare che non dovrebbe ricadere solo sulle donne la vigilanza sulla riproduzione. Infine mi ha mollato la prescrizione con uno sguardo carico di disprezzo.

Sono tornata a casa umiliata. Quella notte ho sognato un’enorme siringa che mi si conficcava nel braccio liberando enormi piranha nel mio sangue, ovvia metafora di quanto mi era successo. Sono andata, molto scossa, dalla mia psicoanalista di allora, cui mi legava un rapporto di fiducia assoluta: nella sua intelligenza, nella sua sensibilità, nella sua capacità alchemica di trasformare i miei moti interiori. Le ho raccontato l’episodio e poi l’incubo dei pesci. Lei ha commentato: «Perché? Lo sperma non è eccitante?».

Sono tanti, in questa storia, gli spigoli che continuano a ferirmi, e coincidono in gran parte con gli artigli immortali del maschilismo. Non solo ciò che ha fatto quel ragazzo, ma il limbo stesso in cui al momento ho percepito me stessa e l’accaduto sono il prodotto delle narrazioni sessiste con cui siamo cresciute: non aver riconosciuto, quella notte, i contorni netti della violenza è una conseguenza delle omissioni e delle parole sbagliate con cui questi racconti ci vengono tramandati.

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Poi ci sono le donne di questa storia: quella del consultorio, che con parole sgraziate mi ha rimproverata come se la colpa non potesse essere che mia, e la mia ex analista, che ha trascurato il mio sentire inabissandolo in una presunta naturalezza primordiale dell’amplesso. Infine c’è la pillola: il bugiardino dice che potrebbe causare molti disturbi, ma è l’unico elemento di questa storia che non me ne ha causati affatto.

In America la chiamano Plan B pill, e trovo positivo associare già il nome a un’idea civile di pianificazione: rendersi conto di non potere o volere procreare, in un momento della propria vita o magari sempre, ha a che fare con un’autonalisi razionale, e se, come ci insegna Confucio, i nomi delle cose devono essere “retti”, eticamente appropriati a ciò che designano, anche solo nominare un farmaco può avere valenza politica, aiutando le donne a fare chiarezza sulla necessità di reclamare il possesso del proprio corpo e dei propri progetti esistenziali.

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Può succedere di inciampare in interpretazioni sbagliate, come nel caso della mia analista, e ritengo che il suo sia stato solo un errore minore, ma penso anche che sia necessario — specialmente per chi ha il ruolo delicato di accompagnarci tramite il linguaggio nella bonifica del nostro inconscio — un tipo di ascolto che metta da parte certi luoghi comuni imposti dalle narrazioni patriarcali.

Il mio limbo è durato qualche anno: con la complicità più o meno volontaria degli spettatori di quel piccolo disastro — la signora del consultorio e soprattutto la mia analista — ho classificato l’esperienza come “normale”. Così, per molto tempo, non ho permesso a me stessa di raccontarmela con le parole giuste, e dunque di poterla superare. Perché tutto — dalle notti che viviamo alle pillole che ingoiamo il giorno dopo — trae il suo senso dal modo in cui ce lo raccontiamo. E allora cominciamo a chiamare le cose con i nomi giusti. A chiamare violenza la violenza. E forse, tra un po’, sparirà ogni nostro orrido limbo: abiteremo finalmente solo storie riconoscibili, e che dunque saremo in grado di condannare.

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La serie. Il corpo delle donne
Questo articolo, come altri che stiamo pubblicando, è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste per denunciare la violenza di genere e nominarla L’iniziativa parte da un appello di Giulia Caminito e Annalisa Camilli

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