A casa del bimbo conteso. “Uniti per dare a Eitan tutto l’amore possibile”

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Un grande albero oscura la nuova casa in cui vive Eitan, come se chi lo ha piantato anni fa avesse saputo di dover un giorno proteggere quel bimbo dagli sguardi e dalle attenzioni della gente, un po’ curiosa ma soprattutto commossa dalla sua storia.
È in una palazzina di mattoni rossi in una borgata nella campagna pavese che sta ricominciando a vivere l’unico superstite della strage del Mottarone. La casa degli zii paterni, Aya e Or, dove prima andava a giocare, adesso è diventata casa sua. Qui ha festeggiato il sesto compleanno, qualche settimana dopo le dimissioni dall’ospedale Regina Margherita di Torino. Qui, ora che le fratture si stanno saldando, ha iniziato a muovere di nuovo i primi passi nel giardino di casa, aggrappandosi alla passerella che i nonni paterni, che abitano nella casa accanto, hanno costruito per collegare i due cortili.

Nella grande stanza delle due cuginette, gli zii hanno aggiunto per lui letto, scrivania e sedia, tali e quali a quelli delle due bambine, solo di un colore diverso. E pian piano Eitan Biran sta diventando a tutti gli effetti il nuovo componente di quella famiglia, come stabilito dal giudice tutelare che nei giorni scorsi ha confermato l’affidamento alla zia Aya. Medico, in grado di tradurre tra italiano ed ebraico la delicata situazione clinica e giudiziaria, molto legata al bambino: fin da subito era caduta su di lei la scelta di occuparsi di Eitan, quando è stato tratto in salvo dalle lamiere della cabina 3 della funivia di Stresa. Accanto a lui i corpi senza vita di 14 persone tra cui la mamma Tal, il papà Amit e il fratellino Tom, due anni, che avevano partecipato il 23 maggio a quella gita sul lago Maggiore durante il viaggio in Italia di due bisnonni, arrivati da Israele a sorpresa pochi giorni prima e morti con il resto della famiglia. “In quel momento stavano facendo il trasloco e avevano altro a cui pensare, ma erano molto felici di quella visita dei parenti — raccontano gli amici — Erano molto ben integrati qui, ma erano altrettanto legati alla comunità ebraica e alle loro radici in Israele”.

Dal giorno dell’incidente diversi familiari stanno facendo la spola tra Tel Aviv e Pavia ed è tra le due sponde del Mediterraneo che ora la vicenda di Eitan si è trasformata in una rabbiosa offensiva, quando gli zii materni Gal e Ron hanno definito il nipotino “ostaggio in Italia”, rivendicando di volerne chiedere l’adozione per portarlo con loro in Israele. Parole che a Pavia hanno destato sconcerto, alle quali la zia Aya non ha replicato. Sono stati i legali a rispondere con un segnale di conciliazione: “Eitan ha bisogno di più amore possibile e ci sono porte aperte, anzi apertissime, a tutti i componenti della famiglia che vogliano partecipare a questo percorso, purché si guardi tutti nella stessa direzione e l’obiettivo per tutti sia unicamente il bene del bambino. Più avanti, quando sarà grande, potrà fare le sue scelte”, hanno detto gli avvocati Armando Simbari e Cristina Pagni.

Tra le accuse mosse dal ramo materno della famiglia c’è principalmente quella di aver iscritto Eitan a una scuola cattolica. “In realtà erano stati Amit e Tal a iscriverlo all’istituto delle suore Canossiane, noto a Pavia come scuola all’avanguardia. Anzi, per essere sicuri che lo prendessero in prima elementare, lo avevano già iscritto all’ultimo anno di materna. È stata la zia Aya che poi li ha seguiti, iscrivendo anche le sue figlie”, racconta Cristina Arina, che con Tal ha diviso pomeriggi interi, all’oratorio di Borgo Ticino o davanti a scuola ad accompagnare i figli più grandi, mentre crescevano le pance dei loro secondogeniti, parlando di bimbi e di studi, del corso di psicologia a distanza a cui si era iscritta Tal e di quanto mancava alla laurea di Amit, che come tanti connazionali aveva scelto Pavia per la facoltà di Medicina, sulle orme della sorella Aya.

Da poco Tal e Amit avevano preso casa nel quartiere Città giardino, più vicino alla tangenziale per Milano, dove Amit al mattino lavorava al servizio della comunità ebraica. “Certamente in chi va a vivere lontano dal proprio Paese il pensiero di tornare ogni tanto c’è, ma la loro intenzione era restare qui a Pavia — racconta Piero Monni, un vicino di casa al Borgo — Quando è avvenuto l’incidente, avevano traslocato da un paio di settimane: c’erano ancora cose da portar via nel cortile in cui i nostri figli sono cresciuti…”

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