Afghanistan, Isis-K e la sua rete pronti a seminare il terrore

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La variante K è solo la prima delle mutazioni terroristiche che potranno prosperare in Afghanistan. I talebani non sono mai riusciti ad avere il controllo totale del Paese, dove – con o senza il loro beneplacito – oltre all’Isis-K ora nasceranno altre formazioni jihadiste. Non a caso, usando un paragone con la pandemia, Mosca ha detto che la priorità è impedire lo “spillover”: il contagio nei Paesi confinanti. Che è uno degli obiettivi del movimento responsabile dell’ultima strage di Kabul: la K della sigla sta per Khorasan, l’antica regione che comprendeva pure parte dell’Iran, del Tagikistan, dell’Uzbekistan e del Turkmenistan.

Isis-K vuole impedire qualsiasi stabilizzazione dell’Afghanistan. Combatte i talebani come negli scorsi anni ha cercato di aizzare la guerra civile, seminando bombe tra la comunità sciita degli hazara e la minoranza tagika. La sua roccaforte è sul confine pachistano, non lontano da Tora Bora dove Osama Bin Laden riuscì a sfuggire agli americani, con una radicata presenza nella capitale. Oggi è prevedibile che scatenerà la caccia ai cittadini Usa – almeno mille – e alle decine di migliaia di collaboratori che non sono riusciti a fuggire. Lo farà per mostrarsi più intransigente dei nuovi dominatori di Kabul e per mettere in luce l’inaffidabilità del governo talebano, che ha promesso di permettere le partenze di chi ha un visto.

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Gli avanguardisti del Daesh non faticheranno a trovare armi più potenti, rifornendosi negli arsenali abbandonati dall’esercito nazionale, e probabilmente finanziatori stranieri interessati a indebolire i talebani. Con queste nuove energie cercherà di mettere a segno altri colpi clamorosi contro gli occidentali, necessari a propagandare le sue capacità ed arruolare reclute. E farà di tutto per creare cellule armate in Tagikistan, Uzbekistan e Kyrgyzstan. Lo scenario più terribile è che, sull’onda di Kabul, questa epidemia rivitalizzi le schegge dello Stato Islamico disperse nel Medio Oriente dopo la disfatta di Mosul: l’ultimo comandante militare del Califfato era proprio un tagiko – Gulmurad Khalimov – ucciso nel 2017 dai russi in Siria. Isis-K non è che una delle tante sigle letali in grado di svilupparsi dal focolaio afghano. Nella galassia magmatica del fondamentalismo armato vengono già segnalate altre frange – come il Tehreek-e-Taliban pachistano – che aprono sedi a Kabul, convinte finalmente di avere un oasi dove agire alla luce del sole.

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E proprio l’attentato contro l’aeroporto, con i 13 militari statunitensi uccisi, dimostra quanto fosse importante la missione della Nato in Afghanistan. Certo, non sono servite a impedire il massacro dell’aeroporto, ma l’intelligence disponeva di informazioni dettagliate sui piani dell’attacco: erano note la natura – kamikaze lanciati tra la folla – e il bersaglio – l’Abbey Gate. Notizie che si ottengono solo grazie a infiltrati e agenti sul campo, quello che gli esperti chiamano “Humint”. Sin dalla sua nascita, gli americani hanno contrastato la crescita di Isis-K. Nel 2017 la centrale sotterranea nella zona di Nangarhar fu devastata con il colossale ordigno Moab, la “madre di tutte le bombe”. L’esplosione, simile a un fungo atomico, ha avuto un risultato psicologico più che operativo, ma è stata seguita da decine di blitz della Cia e delle forze speciali che ne hanno dimezzato i ranghi: si stima che oggi possa contare su circa duemila miliziani.

Fino a giovedì scorso, Isis-K non è mai riuscita a minacciare obiettivi americani. E dal 2001 nel mondo non c’è più stato un attacco pianificato in Afghanistan e condotto all’estero. Una situazione molto differente rispetto a quanto accaduto in Somalia o Yemen, dove l’assenza di truppe occidentali ha permesso di lanciare offensive nei Paesi confinanti e progettare operazioni in Europa. O nel Mali, dove la scarsa efficacia dell’intervento francese ha lasciato proliferare le “bandiere nere” in tutto il Sahel. Dalla prossima settimana però anche l’Afghanistan sarà fuori controllo.

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Una situazione peggiore a quella anteriore all’11 settembre: gli Stati Uniti non avranno neppure una base nei Paesi vicini, mentre all’epoca potevano almeno contare sulle postazioni in Tagikistan e Kyrgyzstan, che adesso sono tornati al fianco di Mosca. Infiltrare spie sul terreno diventerà difficile, sia per la sfiducia generata dalla ritirata, sia per l’assenza di strutture stabili. La sorveglianza sarà affare di satelliti, droni e intercettazioni. Ossia la rete elettronica che ha fallito nel prevenire la distruzione delle Torri Gemelle: dallo spazio è impossibile distinguere una fattoria afghana da un comando di Al Qaeda, mentre le salve di missili lanciate più volte contro Osama Bin Laden non hanno mai scalfito la sua organizzazione. Lezioni di cui non abbiamo saputo fare tesoro.

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