Afghanistan, quello scontro sul ritiro che spaccò la Nato: Italia e Gb contro gli Usa

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LONDRA-BRUXELLES – “È un errore, dobbiamo rimanere. Almeno ancora un altro po’”. Era la prima settimana di giugno. I ministri della Difesa della Nato si riunivano a Bruxelles. Sotto la presidenza del segretario generale del Patto Atlantico, Jens Stoltenberg. L’incontro era fissato per mettere a punto gli ultimi aspetti del successivo summit del 14 giugno. Quello che ha visto incontrarsi tutti i capi di Stato e di governo dell’Alleanza. Il primo appuntamento del presidente americano Joe Biden con tutti i partner militari dell’alleanza. I titolari della Difesa e degli Esteri dovevano anche approvare la versione finale del documento “Nato 2030”, la riflessione strategica per i prossimi dieci anni. Quel che farà il fronte Occidentale nel decennio che ci aspetta.

Quella riunione, però, per un tratto ha cambiato verso. L’Afghanistan ha fatto irruzione nell’ordine del giorno. O meglio le differenze tra i Paesi aderenti. La decisione americana di abbandonare Kabul, infatti, non convinceva tutti. E i più contrari erano l’Italia e la Gran Bretagna. I ministri della Difesa Lorenzo Guerini e Ben Wallace e il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio.

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I rappresentanti del nostro Paese insistevano sui rischi derivanti dalla scelta di lasciare l’Afghanistan al suo destino. Il ritorno dei talebani, infatti, era considerato almeno molto probabile. Il controllo di una parte sempre più grande di quel Paese da parte degli “studenti islamici” avrebbe comportato non solo la certezza di rinunciare a molti degli sforzi di democratizzazione compiuti negli ultimi venti anni, ma soprattutto l’apertura di un nuovo corridoio per l’immigrazione clandestina verso l’Europa.

La paura, infatti, si concentrava sull’ipotesi che gli estremisti afgani avrebbero utilizzato il traffico di essere umani verso il Vecchio Continente come arma di pressione persino più efficace degli attentati terroristici dell’ultimo ventennio. Sospetto che in realtà si sta concretizzando molto rapidamente.

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Wallace lo considerava un errore anche dal punto di vista geostrategico. Gli inglesi, del resto, hanno una brutta esperienza in quell’area del mondo. Furono i primi oltre cento anni fa a provare a colonizzare e controllare l’Afghanistan. Senza successo. Ed ora temono ripercussioni in casa. In particolare sotto il profilo terroristico. “Siamo estremamente preoccupati – ha detto il ministro di Boris Johnson – Al Qaeda così potrebbe tornare a colpire”. Londra pensa al peggio anche per quanto riguarda gli accordi siglati dagli Usa – allora guidati ancora da Donald Trump – a Doha con i talebani. Tutte osservazioni che Wallace ha illustrato anche al vertice Nato.

Di fronte a quelle posizioni, il segretario di Stato alla Difesa statunitense Lloyd Austin, è stato irremovibile. L’amministrazione di Washington, infatti, continuava e continua a considerare impossibile una marcia indietro sull’addio a Kabul. Per Biden è una promessa fatta in campagna elettorale sebbene la prima decisione sia stata assunta dal predecessore.

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La fermezza americana, dunque, proprio a giugno era arrivata al punto di dire agli alleati: noi andiamo via, se voi volete rimanere fatelo. Una sfida. Ipotesi, però, subito considerata impraticabile dall’Italia. Senza l’appoggio militare e logistico degli Stati Uniti, rimanere sarebbe insostenibile. La presenza militare del nostro Paese diventerebbe un costo anche politico. Inspiegabile all’opinione pubblica.

Discorso analogo per la Gran Bretagna che ha anche provato a convincere, oltre all’Italia, Francia e Germania sull’idea di restare senza gli Usa. Una sorta di Alleanza in formato ridotto. L’ennesimo tentativo inglese di riassegnarsi un ruolo internazionale dopo l’uscita dall’Unione europea. Ricevendo, però, un netto rifiuto. Alla fine, dunque, pure Londra si è adeguata. E magari si giocherà la sconfitta per reclamare la carica di Segretario generale della Nato il prossimo anno. Una ricompesa che vede Theresa May in pole position.

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Al momento tutti si trincerano dietro gli accordi con il governo di Kabul che prevede una presenza civile a sostegno. L’intenzione è quella di non trasmettere l’impressione che il ritiro sia un abbandono. “Prima di tutto – aveva spiegato Stoltenberg a giugno scorso – manterremo la nostra presenza in Afghanistan per fornire consulenza e rafforzamento delle capacità alle Istituzioni di sicurezza locali. Finanzieremo le forze di sicurezza assicurandoci di destinare somme di denaro significative. Stiamo anche progettando di fornire addestramento all’estero per le forze di sicurezza e stiamo lavorando su come sostenere le infrastrutture critiche”.

Il punto è, però, che questo in due mesi sembra volatilizzato. L’avanzata talebana sta ponendo problemi e esigenze ben diverse da quelle del semplice sostegno esterno. L’America non ha alcuna intenzione di cambiare idea: tutto è definito per ritirare l’ultimo soldato nella data simbolo dell’11 settembre. I suoi obiettivi strategici sono cambiati negli ultimi anni. L’attenzione si concentra sulla Cina. Sebbene molti inizino a temere che Pechino possa sfruttare la porta afgana per creare un altro elemento di destabilizzazione per l’Occidente.

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