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Ai Weiwei: “1000 anni” di gioie e dolori

Artista concettuale, scultore, pittore, performer, fotografo, architetto e urbanista, collezionista, regista (di cinema, documentari, teatro e opera), attore, musicista (cantante e paroliere), scrittore ed editore, blogger e professionista del selfie, giornalista d’inchiesta, attivista per i diritti umani e dissidente. Impossibile etichettare Ai Weiwei, poliedrico e controverso artista cinese, nato a Pechino nel 1957, figlio di Ai Qing (1910-1996), uno dei più conosciuti e rivoluzionari poeti in Cina, oppositore del regime di Mao e per questo condannato ai lavori forzati e all’esilio.
Per Ai Weiwei pensiero artistico e attività politica sono indissolubilmente legati, il suo linguaggio è segnato dal rapporto conflittuale con la tradizione cinese, e la sua pratica di denuncia punta i riflettori sui problemi della Cina contemporanea, come l’esercizio del potere autocratico, la scomparsa della storia culturale cinese, la violazione dei diritti umani, il lavoro forzato e la povertà. Il 3 aprile 2011 viene arrestato all’aeroporto internazionale di Pechino a causa della sua attività di opposizione al governo, una esperienza che lo segnerà profondamente, portandolo a scrivere il libro 1000 Years of Joys and Sorrows in uscita il 2 novembre 2021, per raccontare al figlio Ai Lao la sua storia, quella di suo padre, e di tutti gli intellettuali e artisti cinesi sopravvissuti al regime. Adesso vive in Portogallo, immerso nella natura e circondato dai suoi amati gatti di cui condivide le avventure quotidiane su Instagram, ed è pronto per il suo ritorno in Italia con un imponente chandelier alto 9 metri realizzato a Murano, e la direzione dell’opera Turandot al Teatro dell’Opera di Roma.

Dove si trova mentre parliamo? E come stanno i gatti appena nati?
«Grazie per avermelo chiesto, molto dolce. Shadow è una gatta che abbiamo trovato nella spazzatura, era come la mia mano, molto piccola. Otto mesi dopo, ha dato alla luce otto gattini. In Cina, in passato, abbiamo organizzato una specie di rifugio per gatti randagi, ne avevamo più di quaranta. Ora vivo a centinaia di chilometri a Est di Lisbona, in Portogallo, c’è molto sole tutto l’anno, le persone sono amichevoli, il cibo è buono, non è lontano dall’oceano, quindi non posso lamentarmi. Mio figlio Ai Lao ha dodici anni e studia a Cambridge, dove vive insieme alla mia compagna».

A cosa sta lavorando?
«Sto lavorando a film, alla pianificazione di mostre museali, diversi spettacoli, uno sarà alla fine di luglio a Porto, è un albero che ho forgiato dal Brasile, alto 32,4 metri, un albero molto grande in fusione di ferro, una tecnica già sperimentata in Cina, per la prima volta in mostra in Portogallo».

Fa spesso riferimento alla tradizione e all’artigianato cinese: in Coloured Vases (2006), immerge millenari vasi cinesi in barattoli di vernice industriale, come se volesse distruggere migliaia di anni di storia, mentre nell’installazione Sunflower Seeds (2010) mostra l’antica abilità e la bellezza di 1600 artigiani, che modellano e dipingono a mano cento milioni di semi di girasole in porcellana. Ci spiega il suo controverso rapporto con la tradizione cinese?
«Penso che le mie opere siano profondamente radicate nella comprensione della tradizione cinese, sono un uomo contemporaneo, penso che reinterpretare l’artigianato e la cultura in questo linguaggio sia molto importante, distruggere e dissacrare è un modo per comprendere quello che è successo in passato».

Illy e Ai Weiwei: una tazza, un’opera d’arte

È anche un architetto, ha costruito il suo studio in Cina in soli 60 giorni, ha collaborato con Herzog & de Meuron per il National Olympic Stadium di Pechino e il Serpentine Pavilion di Londra nel 2012. Per lei un’architettura deve mettersi in discussione. Potrebbe spiegare il suo approccio architettonico? E se sta lavorando a nuovi progetti?
«Grazie per averlo chiesto. L’architettura è probabilmente il più grande sforzo umano mai fatto, presenta funzionalità e illustra i comportamenti umani e chi siamo, e riflette la tecnologia, lo sviluppo e la comprensione della struttura. Pratico architettura e penso che sia un elemento politico e sociale, se si guarda alla storia l’architettura è stata tortura, lavoro per scopi religiosi, ma parlando di residenziale, ogni cultura ha i suoi stili e anche le società sono organizzate in maniera diversa. Naturalmente dopo il Bauhaus, la madre dell’architettura che è una stata una nuova interpretazione della modernità e della globalizzazione, è stato creato un nuovo linguaggio.
Sto lavorando al mio studio, che costruirò in Portogallo, probabilmente sarà una delle mie ultime opere di architettura. Lo farò seguendo la tecnica tradizionale cinese, con la struttura in legno quasi senza bisogno di chiodi, che è un linguaggio meraviglioso, sarà in pezzi di legno massello».

Ai Weiwei con il figlio dodicenne Ai Lao
Courtesy Ai Weiwei Studio  È stato influenzato da Duchamp e dal Dadaismo, ma tra gli artisti della sua generazione, c’è qualcuno con cui è in contatto o con cui vorrebbe collaborare?
«Non ho questo tipo di connessione chiara, ma nei miei lavori mi affido sempre alle origini e agli artisti locali».

È stato molte volte in Italia. Ha intenzione di esporre presto nel nostro Paese?
«Sì, amo l’Italia, il sole, il cibo, i classici, la cultura, l’Italia è così ricca, anche lo stile di vita è fantastico. Forse avrò la mia versione di Turandot, l’opera di Puccini, che riparte al Teatro dell’Opera di Roma, è stata sospesa quando è iniziata la pandemia. Ho realizzato anche un enorme lampadario alto 9 metri, lavorando 2 anni a Murano, stiamo ancora parlando delle location per presentarlo, il lavoro riguarda le morti e il rapporto umano con la natura, è un’opera fantastica, non vedo l’ora di presentarla in Italia».

Sta scrivendo un libro di memorie sulla sua vita, in uscita il 2 novembre 2021, 1000 Years of Joys and Sorrows, 1000 anni di gioie e dolori. Di cosa si tratta?
Ho scritto questo libro perché durante la mia detenzione nel 2011 mi sono reso conto che forse con una condanna a più di dieci anni non avrei avuto la possibilità di vedere mio figlio, ora ha 12 anni ma a quel tempo aveva 2 anni, quindi ho pensato che se fossi uscito, avrei scritto un libro di memorie, per fargli sapere chi è suo padre, e chi è stato suo nonno, mio padre era Ai Qing (1910-1996), il poeta più noto in Cina, scrisse poesie anche su Roma e il Colosseo. Ho scritto la storia della mia vita e quella di mio padre, mio figlio è nato nel 2009, mio padre è nato nel 1910, quindi cento anni di storia. Un libro per raccontare a mio figlio come gli intellettuali e gli artisti cinesi sono sopravvissuti in questo secolo, ma anche per parlare della cultura della Cina e della sua storia millenaria».

Quali sono le sue più grandi gioie?
Penso che le mie più grandi gioie siano la natura, che è sempre oltre ogni immaginazione, è davvero sorprendente, e la creatività, come illustrare e interpretare il nostro pensiero umano in termini di libera espressione».

Ha detto: “Non voglio persone che capiscono l’arte, ma che capiscono quello che faccio”. C’è ancora qualcosa che non è riuscito a comunicare al pubblico?
«Un artista è come una fontana, l’acqua esce a causa della pressione, non necessariamente l’acqua deve essere usata, l’arte può essere utile, ma le reazioni delle persone non devono influenzare l’acqua che esce».

Ai Weiwei con uno dei suoi Shan Hai Jing, sculture in bambù e seta, basate su creature mitologiche dell’omonimo testo cinese classico, una descrizione geografica e culturale, in parte favolistica, della Cina di oltre duemila anni fa.   Una donna davanti a una sua mostra ha detto: “Le sue opere hanno ampliato la mia coscienza”. Le sue installazioni aprono gli occhi e toccano i cuori… È questo l’obiettivo dei suoi lavori?
«Molte persone lo dicono e questo mi fa sentire molto bene, perché non mi sento solo, il mio lavoro ispira le giovani generazioni e svela la vita reale».

L’arte può essere uno strumento per comprendere meglio i tempi che viviamo e la nostra quotidianità?
«Penso che tu abbia fatto centro, l’arte è uno strumento per noi per sentire il mondo, per scoprire chi siamo e per vedere che tipo di altro futuro possiamo fornire alle giovani generazioni».

Ha anche detto che l’arte è per tutti, tutti possono essere artisti, ha anche consegnato un’opera d’arte fai-da-te, dei giubbotti di sicurezza uniti tra loro con le loro zip. Ognuno di noi può definire cos’è arte.
«Hai ragione, come umani, siamo capaci di fare qualsiasi cosa, è solo un fattore di educazione che ti fa diventare un artista professionista, ma in realtà un essere umano può scoprire che può essere fantasioso e anche avere coraggio e trovare un modo e l’abilità per strutturare qualcosa che identifica e dà integrità alla vita, la vita ha bisogno di una nuova identità o una nuova interpretazione quando creiamo qualcosa di nuovo».

A volte però non è facile seguire questa integrità e creare qualcosa di nuovo. Come è in grado di isolarsi dalle circostanze e concentrarsi?
«Sono fortunato perché sono pieno di curiosità, e sono anche fortunato perché mi critico sempre, critico gli altri per esaminare le situazioni e per restare umile nei confronti della vita, la vita è molto più grande, anche quando muoio non riuscirò a capire la vita, è un tale mistero, quindi dobbiamo avere una sorta di credo, siamo venuti al mondo non solo per la funzione di essere vivi, ma ciò che ci fa sentire vivi è trovare e definire noi stessi, scoprire».

Ai Weiwei, tra tradizione e distruzione

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Ha studiato arte, ma ha detto anche che non è fondamentale studiare arte per essere un artista, perché nessuno può insegnarti come si diventa artisti. Ha detto che è nato artista, non che lo sia diventato.
«Sì, penso che l’arte possa essere solo disimparata, non puoi davvero imparare l’arte, ma puoi studiare la vita, puoi studiare che cosa sia la vita per scoprire il tipo di linguaggio per illustrare la tua comprensione della vita moderna, e questo linguaggio a volte può essere chiamato arte, a volte letteratura, poesia…».

Le nuove generazioni visitano le sue mostre, spesso i giovani oggi lottano per esprimersi e cercano di trovare uno spazio per raccontare la loro storia.
«Penso che se credi in te stesso per diventare un artista devi lottare, non c’è mai un modo facile, quello che importa non è il fine, conta la lotta in sè, il significato deriva da quella lotta, senza lottare non puoi mai diventare un vero artista, la mia arte non è mai stata riconosciuta prima che avessi 40-45 anni, quando ho fatto la mia prima mostra, ero appassionato, ma non sono mai stato riconosciuto, ma non importa, la mia vita ha ancora un senso, e il significato è trovare la strada, piuttosto che avere successo».

Oggi tutti possono esprimersi e amplificare la propria voce sui social. Lei posta molto della sua quotidianità su Instagram, come la nascita dei gatti, o mentre si fa la barba, anche questa è arte?
«Penso che abbiamo una sola vita, e questa vita dovrebbe essere arte, in quel senso inconsciamente cerchi di trovare un linguaggio e anche di creare un linguaggio».

Il momento del parto della sua gatta condiviso su Instagram, o lei mentre si rade, sembrano performance live.
(ride, ndr) «Sì, in un certo senso sono esibizioni dal vivo».

Per quanto riguarda il suo processo creativo, c’è un punto di partenza, e quando si sente soddisfatto del suo lavoro?
«Buona domanda. Il mio processo creativo è iniziato quando sono nato, quando ho capito di essere un artista, tutte le mie esperienze di vita hanno funzionato, anche i momenti più difficili, nel modo in cui penso all’arte. Quando la mia vita finirà, sarà il vero lavoro che ho portato a termine, per questo devo lavorare sodo, perché le cose da fare non sono ancora terminate, e non sono mai soddisfatto di nessun lavoro che ho fatto, quando è ultimato, penso che quello sia il punto di partenza per continuare».

Non si sente soddisfatto al 100 per cento, è così?
«No, più scopri, meno pensi di sapere della vita».

Ha detto: “La vita è un puzzle, non si completa mai finché non muori”. Quali pezzi di questo puzzle, nella sua incredibile vita, vorrebbe ancora aggiungere?
«Il tempo è troppo breve, anche se le pagine sono tante, una volta girate il libro è finito, quindi abbiamo un senso di urgenza».



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