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Ardita: “Cosa nostra sfrutta il Covid per rilanciare il welfare mafioso”

Cosa nostra non ha mai smesso di cercare consenso sociale nei territori più disagiati e di offrire forme di assistenza. Fa parte del suo Dna”, spiega Sebastiano Ardita, oggi componente del Consiglio superiore della magistratura, per anni pubblico ministero sul fronte di tante indagini antimafia in Sicilia, è autore del libro “Cosa nostra spa, il patto economico fra criminalità economica e colletti bianchi”. Dice: “Bisognerebbe interrogarsi sulla situazione di certi quartieri nel nostro Meridione, a volte sembrano corpi separati dalle città”. 

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La mafia riparte dunque dalle periferie per riorganizzare il controllo del territorio e il suo welfare? 

“Nella mia Catania, c’è un quartiere, si chiama Librino, dove la gente continua a dire: ‘Andiamo in città’. Vivono proprio una dimensione di separatezza, soprattutto per la mancanza di tanti servizi essenziali. La stessa situazione è in tante altre realtà, dove lo Stato non ha saputo realizzare una presenza reale. Non bastano le operazioni di polizia per costruire un tessuto sociale di cambiamento”. 

Quanto conta il welfare mafioso in queste realtà? 

“Dopo le stragi, un movimento culturale di riscatto e cambiamento aveva coinvolto anche le fasce più deboli. Oggi, avverto un momento di allentamento, dovuto anche alla crisi economica, accentuata dall’emergenza Covid. La pandemia soprattutto è un’occasione che l’organizzazione mafiosa sta sfruttando, per cercare di tornare a consolidare la sua presenza in alcune parti del territorio e della popolazione”.  

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Quanto il movimento antimafia è riuscito a incidere in queste fasce sociali? 

“Purtroppo, talvolta, ci si è fermati alle dichiarazioni di principio, ai proclami. Mentre, sarebbe necessario un impegno continuo sul territorio. Un impegno sociale che sappia creare effettivi percorsi di cambiamento”. 

Nelle ultime indagini antimafia i protagonisti continuano ad essere sempre gli scarcerati. C’è forse una falla da qualche parte nel sistema giudiziario, che non riesce a fermare a riorganizzazione delle cosche? 

“In Italia le pene previste per i reati di mafia sono alte, ma spesso, per svariate ragioni, non sempre vengono scontate per intero. Accade pure che molti mafiosi non siano condannati per reati di mafia. Nei mesi scorsi, poi, ci sono state le tante scarcerazioni durante la prima fase dell’emergenza Covid, all’indomani del decreto “Cura Italia”: la questione dei mafiosi in carcere non era stata affrontata adeguatamente. Resta un tema centrale quello dei boss che tornano per varie ragioni in libertà. Perché non rinunciano al loro ruolo, che oggi esplicano in modo sempre diverso, offrendo servizi. La vera essenza del welfare mafioso”.  

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