Arena Robinson, Francesco Filippi: “Il nostro passato coloniale? Siamo stati violenti quanto più non si poteva”

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“Quello che sui social è schiacciamento, è quel che accade con la memoria pubblica di ogni Paese – dice Francesco Filippi, storico delle mentalità – si sceglie ciò che si vuole mostrare, come con le Storie di Instagram. Possiamo metterle in evidenza o lasciarle durare solo 24 ore”. E la seconda opzione è quel che abbiamo fatto noi con il nostro scabroso passato coloniale.

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Con Concetto Vecchio, Filippi, di cui è uscito il saggio Prima gli italiani! (sì, ma quali?) per Laterza, è ospite all’Arena Robinson, il nostro spazio a Più libri più liberi, la Fiera nazionale della piccola e media editoria alla Nuvola di Roma. “È che non abbiamo avuto la decolonizzazione di altri Paesi, come l’Inghilterra” spiega Filippi. Insomma, ci siamo ritrovati, con la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del regime, a non doverci preoccupare quasi nemmeno delle conseguenze, come se fossero state solo colpa di altre persone (quell’idea di inventarci che il colpevole era altro da noi, e non noi stessi in un altro tempo, di cui ha parlato anche Michele Marzano). Così rimangono gli obelischi rubati – quello Etiope di Aksum, nonostante la decisione di riconsegnarlo fu del ’69, partì per l’ex colonia solo nel 2003 – e le strade con i nomi di battaglie in cui abbiamo massacrato le popolazioni locali. E che fanno parte del nostro quotidiano, ricordando le nostre vittime – gli invasori – e non il genocidio perpetrato dagli italiani, che brava gente non erano.

Capirlo è una buona arma contro i populismi. Anche perché certe immagini, come dire che “vengono a rubarci le donne”, spiega Filippi, imploderebbero (si spera) di fronte a quel che abbiamo fatto noi, che non eravamo certi migranti pacifici. Però serverebbero più libri di storia e nuove parole.

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“Il colonialismo italiano ha un problema – prosegue Filippi – fu di prestigio e non economico. L’italia voleva il suo ‘posto al sole’ e conquistarsi la sua whiteness, la bianchezza. Non era certo tra Ottocento e Novecento che fossimo anche noi bianchi, quelli del sud in particolare. In America, nelle liste degli immigrati, eravamo inseriti in una classe inferiore”.

“Si va in colonia per curare un complesso di inferiorità – continua Filippi – dimostrare di avere tanta di quella civiltà da poterla esportare. Ma non ci sono i soldi per mantenere tutto, figuarsi per costruire una struttura civile oltremare. Per decenni ha comandato l’esercito. Se tu vai a dimostrare che sei migliore degli altri, non puoi perdere e ogni mezzo diventa lecito, specie se sei convinto di avere di fronte degli inferiori. Ecco perché si possono usare i gas o nella Tripoli conquistata si possono impiccare migliaia di tripolini che passano per strada. Siamo stati violenti quanto più non si poteva”.

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Un triste esempio è la risposta dell’allora Viceré Graziani all’attentato a suo danno del ’37. Una strage immane contro la popolazione civile di Addis Abeba e non solo durata tre giorni e di cui non si conosce il numero preciso dei morti (finanche 30 mila). Per gli etiopi è il loro giorno della memoria, il 19 febbraio. “Noi invece non solo l’abbiamo dimenticato – dice Filippi – ma non lo riteniamo neanche essenziale nella costruzione dell’identità del nostro Paese. È sempre ‘italiani brava gente’, i soldati che vanno a far all’amore. E invece Faccetta nera è un inno allo stupro. Non sappiamo proprio cosa abbiamo fatto in colonia”.

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