Arena Robinson, “Per capire la Cina ricordiamoci che noi l’abbiamo voluta così”

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“La Cina è quello che è perché noi la volevamo così: un Paese senza regole per i lavoratori, che inquinava, dove produrre il più possibile. Per questo abbiamo ingegnerizzato la sua entrata nella Wto. Poi ci siamo accorti che saliva i gradini…”. Filippo Santelli, il nostro corrispondente da Pechino nei mesi più neri della pandemia, ha chiara la situazione. Nelle lunghe settimane del suo isolamento per Covid ha raccontato ai nostri lettori – qui e su Instagram – la sua vita nella stanzetta chiusa di un grigio ospedale. E dall’esperienza, sulla propria pelle, del controllo cinese ha tratto un libro, La cina non è una sola, Mondadori. Con lui all’Arena Robinson, il nostro spazio a Più libri più liberi, la Fiera della piccola e media editoria di Roma, anche l’esperto dell’Espresso, Simone Pieranni, autore invece de La Cina nuova (Laterza), e la nostra giornalista Gabriella Colarusso, che ha intervistato entrambi.

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Il problema di noi occidentali, dicono, è che ci lasciamo prendere dalla “sinofrenia”, come l’ha definita un giornalista di Bloomberg, per cui “a fasi alterne crediamo che la Cina sia destinata a collassare oppure a dominare il mondo” spiega Pieranni. “È un approccio fin troppo emotivo. Nella realtà, estrema forza e fragilità si intersecano. Come andrà a finire? In una delle tante sfumature di grigio che stanno in mezzo a questi due estremi”. “È fondamentale invece avere una valutazione quanto più obiettiva possibile della Cina – ribadisce anche Santelli – del perché fa le cose, e molto spesso sono motivazioni non legate al resto del mondo ma a rapporti di forza interni al Paese. Vero è che ci sta sfidando. Ci troviamo di fronte a una potenza che adesso ha i mezzi per imporre la sua idea di mondo. Dobbiamo decidere come dialogare con quest’alterità o se contenerla, come si fece con l’Unione Sovietica, o un mix di queste cose: in alcuni campi collaborazione, in altri no”.

“A me l’esperienza della pandemia ha aperto gli occhi – continua Santelli – Credevamo che la pandemia sarebbe stata il momento Cernobyl della Cina, quando un disastro rivela la fragilità di un regime autoritario. Ma scaricando la colpa sui funzionari locali e riportando il contagio sotto controllo in patria, il Partito ha trasformato una minaccia esistenziale, come l’aver sottovalutato la minaccia del virus, in un’occasione per dimostrare la sua essenzialità ai cittadini”.

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È osservando i rapporti tra il Partito comunista cinese e le sue grandi compagnie tecnologiche che si comprendono più cose. Ora che lo strapotere di Big Tech è inviso anche ai cittadini, il tema della privacy è dominante. “Il Partito cinese ha colto la palla al balzo – commenta Pieranni – e siccome Big Tech ha il potere di influenzare l’opinione pubblica, Xi Jinping, che in Cina deve essere l’unico influencer, ha iniziato a multarla. Ma l’idea non è annientarla, quanto rettificarla. Devono agire negli obiettivi della Cina: redistribuzione e autonomia tecnologica. Non a caso Jack Ma, l’imprenditore di Alibaba, è ricomparso in una scuola rurale, per dire che presto si sarebbero dedicati ai semiconduttori”.

Santelli non crede però che la questione del controllo dei dati sia fondamentale per il Partito: “Le app di tracciamento Covid in Cina non funzionavano. Ce n’erano tante per regione. È vero che esistono molti dati, ma è la qualità che conta e la capacità del governo di analizzarli. Tutto questo in Cina non c’è, il loro sistema è fatto per compartimenti stagni, ogni luogo ha il proprio potere e non è disposto a metterli in comune con gli altri. Non è detto che il regime lo voglia, del resto. È un autoritarismo frammentato, è un sistema ingegnerizzato così perché nessun frammento sfidi il centro. La Cina vuole controllare in modo tradizionale, con la mobilitazione sul territorio. D’altra parte, perché mandare gli Uiguri nei campi di riabilitazione, se avevano dati mirati per scegliere chi era pericoloso e chi no? Perché alla fine il sistema di governo è sempre quello dei tempi delle grande campagne, quando schiere di funzionari andavano villaggio per villaggio a riscuotere le tasse”.

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È vero poi, come dice Pieranni, che “l’ascensore sociale degli anni Novanta si è rotto” e sempre più persone criticano un sistema che chiede tanto – la settimana 996 nelle aziende tecnologiche, dalle 9 alle 9 sei giorni su sette – per non dare più come in passato. Eppure “i giovani cinesi continuano a tollerare le disuguaglianze” dice Santelli. Mentre il governo centrale scarica anche in questo caso la colpa sui privati per farsi promotore della soluzione, la redistribuzione della ricchezza, bacchettando i suoi giganti aziendali. Il risultato, tra bastone e carota, è che il dissenso un po’ viene soffocato, un po’ non attecchisce. “I cinesi non vogliono la democrazia – conclude Santelli – sono convinti di avere la loro e di avere un sistema che funziona”.

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