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Battiato non era di destra (e nemmeno di sinistra): era Battiato

“In Italia o si è Pertini o si è Battiato”, disse un giorno Gaber. Solo che Franco Battiato non si è mai fatto classificare, e qui sta la sua bellezza e la sua eternità. È sempre stato semplicemente “un cantante”, come amava definirsi, sfuggendo alle rubricazioni dell’Italia ideologica. Diceva “Vamos a la plaja è un capolavoro”, ma allo stesso tempo non si faceva fotografare da Sorrisi e canzoni;  “Marx entra ed esce dai dischi caldi, ma non riesce mai a piazzarsi fra i primi dieci”, dopodiché a Catania si schierò senza esitazioni contro il candidato di Silvio Berlusconi, il sindaco Umberto Scapagnini, che i catanesi con feroce ironia avevano ribattezzato “Sciampagnini”. Ed è vero che quando i suoi coetanei stavano sulle barricate della contestazione Franco cantava È l’amore, con cui vinse Settevoci. Tuttavia oggi la sinistra lo piange con la stessa intensità della destra, perché è stato semplicemente il genio che si fa musica.

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Ora Franco Rampelli di Fratelli d’Italia cita i versi di Povera patria e Giorgia Meloni evoca il “Dio maestro”, ma sono i Radicali a ricordare che fu un loro iscritto: più volte li votò. E quando fece politica lo fece con un ex comunista come Rosario Crocetta. Per tanti anni la destra se ne appropriò, senza capirlo. Negli anni Ottanta, all’Arena di Verona, i fascisti ascoltavano le sue canzoni con il braccio teso. “Me l’han detto, non me ne sono accorto”, commentò Battiato. Fu il suo esoterismo a farne un’icona dei missini in cerca di nuovi padri, ma era ricerca, non politica. Era lo stesso Battiato del misticismo islamico, quello che diceva: “Ho fatto 1200 chilometri in treno per andare a vedere i dervisci tourneurs”. Soprattutto cantava: “Quanti personaggi inutili che ho indossato”. La conferma che un grande artista è soprattutto contraddizione.

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La Cura è la più bella canzone d’amore di sempre. È per questo che la sua morte ci commuove. Ma Battiato è anche quello che ci fece ballare nell’estate del Mundial spagnolo, con Cuccurucucu, come ha ricordato Marco Tardelli: La Voce del padrone, contribuì ad archiviare gli anni Settanta, era la cesura di una storia, ma è tutto così complicato, sfaccettato e stratificato, che sui testi di quel disco si discute ancora adesso nei dopocena, quarant’anni dopo.

È stato molto siciliano. “E qui salta la difficoltà”, come disse Lawrence di Verga. E come milioni di siciliani era partito ragazzo, da Riposto per Milano, per fare fortuna. E ci sono insegnanti che ieri nelle scuole della Sicilia interna hanno fatto ascoltare ai ragazzi Stranizza d’amuri e Veni l’autunnu, versi che per ogni isolano suonano come una patria.

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È stato fuori dalle mode, dalle tendenze. Semmai ha interpretato un sentimento di inquietudine che sarebbe esploso in anni recenti, ma da artista, arrivandoci prima. “I nostri politici hanno certe facce toste che anche una randellata in testa rimbalzerebbe. Non c’è speranza”, denunciava trent’anni fa. “Quando nel 2013 replicò l’accusa, con toni più coloriti, ci furono ondate di polemiche. Matteo Salvini gli diede del “piccolo uomo”, lo stesso Salvini che ieri lo ha esaltato, per convenienza.

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Non amava la canzone d’impegno, non era nel Pantheon del cantautori, semplicemente perché era altro, ma non aveva difficoltà a dire che “Guccini e De Andrè avevano toccato livelli di grandissima poesia”. Un proletario dello spirito si definì una volta, che collaborò a lungo con Manlio Sgalambro, il filosofo che cantava il nichilismo. Alla destra identitaria bisognerebbe però ricordare che già nel 1996 Battiato diceva, a proposito degli immigrati: “Da che mondo è mondo tutto viene da fuori. Non esiste il popolo siciliano, esiste della gente che nasce in Sicilia e che si chiama siciliana, ma non esiste il siciliano per eccellenza, noi siamo figli di turchi, di saraceni, di svevi, di spagnoli, di normanni, di arabi. Solo la stupidità di un individuo può fargli pensare di essere padrone del territorio in cui nasce”.

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“Sì che cambierà”, citano adesso quelli di Fratelli d’Italia. Solo che Battiato è stato poesia, fuori da ogni contingenza. Per tantissimi italiani ha rappresentato la colonna sonora di tante stagioni diverse, e le stagioni non sono tutte uguali. Resta la sua lezione impossibile, che vale come un’epigrafe: “Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente”.



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