Biodiversità, clima e cibo: tutti i numeri della Terra

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A partire dalla rivoluzione industriale, le attività umane hanno distrutto e degradato sempre più foreste, praterie, zone umide, oceani e altri importanti ecosistemi, minacciando il benessere umano. Il 75% della superficie terrestre non coperta da ghiaccio è già stata significativamente alterata, la maggior parte degli oceani è inquinata e più dell’85% della superficie delle zone umide è andata perduta. Il più importante fattore diretto della perdita di biodiversità nei sistemi terrestri durante gli ultimi decenni è stato il cambiamento dell’uso dei suoli e, principalmente, la conversione di habitat primari incontaminati in sistemi agricoli, mentre la gran parte degli oceani è stata oggetto di pesca eccessiva. A livello globale, il cambiamento climatico non è stato finora il più importante fattore responsabile della perdita di biodiversità, ma nei prossimi decenni si prevede che assumerà un’importanza pari o superiore a quella degli altri fattori.

IL DECLINO DELLA BIODIVERSITÀ

  • Perdita di biodiversità – Living Planet Report (ultimo): 68% il calo medio delle popolazioni di vertebrati in meno di 50 anni (-94% in Sud America)
  • La massa di manufatti umani ha superato la biomassa naturale del Pianeta (Elhacham et al. 2020, Nature)

Siamo di fronte a un declino senza precedenti della diversità biologica a livello planetario. Circa il 25% delle 93.579 specie per le quali è valutato lo status di conservazione, è attualmente minacciato di estinzione – ovvero elencate nella Lista rossa Iucn (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura) come vulnerabile, in pericolo o in pericolo critico). A essere minacciate a livello globale sono:il 41% delle specie di anfibi, il 13% delle specie di uccelli, il 7% delle specie di pesci ossei, il 25% delle specie di mammiferi ed il 19% delle specie di rettili (Rapporto Ipbes 2019). Sulla base delle Liste Rosse Iucn per l’Europa (la regione con i migliori dati), si stima inoltre che circa il 10% delle specie di insetti sia a rischio estinzione. In Europa il 9,2% delle specie di api, l’8,6% delle farfalle e il 17,9% di coleotteri saproxilici sono minacciati di estinzione regionale. Lo stesso Rapporto Ipbes (2019) riporta una situazione non migliore per le piante. A rischio sono il 36% delle dicotiledoni, il 17% delle monocotiledoni, il 40% delle gimnosperme ed il 16% delle pteridofite.

I fattori di minaccia hanno peso diverso sui diversi gruppi tassonomici e sulle diverse aree biogeografiche del Pianeta. Per esempio, secondo il rapporto Ipbes, in Africa l’impatto dello sfruttamento diretto delle popolazioni animali (caccia, bracconaggio, etc.) supera quello del cambiamento d’uso del suolo. Nelle Americhe, questi due fattori hanno invece un impatto simile. Al contrario in Europa, Asia e Oceania il cambiamento d’uso del suolo è il principale fattore di rischio che impatta la conservazione degli ecosistemi.

La biodiversità marina soffre in particolare per il fenomeno dell’inquinamento e per l’overfishing, il depauperamento delle risorse ittiche causato da un’eccessiva e spesso ancora illegale, non riportata e non regolamentata (Inn) attività di pesca. A livello globale il 34 % degli stock ittici sono pescati più velocemente della loro capacità di rigenerarsi. La Fao stima che 84 milioni di tonnellate di pesce siano state pescate nel 2018 (a cui vanno aggiunti ulteriori 12 milioni di tonnellate di pesce pescato nelle acque interne). La quantità di pesce selvatico pescato è aumentata di 5 volte nella seconda metà dell’ultimo secolo.

Gli ecosistemi acquatici sono tra i più coinvolti nel calo della biodiversità che sta interessando il globo. Osservando i trend demografici e lo stato di conservazione di alcune specie simbolo è possibile accorgersi della necessità di invertire la rotta del processo di estinzione il prima possibile. Le barriere coralline sono ecosistemi imprescindibili per la biodiversità marina: sono responsabili della sopravvivenza del 25% delle specie marine. Il report del 2020 prodotto dal Global Coral Reef Monitoring Network (Gcrmn), risultato di un’attività di monitoraggio portata avanti dal 1978 al 2019, fornisce una fotografia chiara del loro status. In seguito ad un primo evento di “sbiancamento” nel 1998 in cui si è perso l’8% delle barriere coralline, la copertura media globale di coralli è tornata ai livelli precedenti, suggerendo la resistenza di questi ecosistemi, negli ultimi 15 anni però le barriere coralline hanno continuato a subire ripetuti ed estesi eventi di mortalità di massa, che hanno portato a una riduzione della loro superficie del 14%.

IL DECLINO DELLA BIODIVERSITÀ IN ITALIA

L’Italia è il Paese europeo che in assoluto presenta il più alto numero di specie, ospitando circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa. In base alla Check List italiana del Ministero della Transizione Ecologica, il nostro Paese ospita 57.468 specie animali, di cui 4.777 (8,6%) si possono considerare endemiche. A livello di specie vegetali invece in Italia si contano quasi 12.000 specie. Solo tra le oltre 6.700 specie di piante vascolari si annoverano circa il 13% di specie endemiche. Questa ricchezza di biodiversità è però seriamente minacciata e pezzi di essa rischiano di essere irrimediabilmente perduti. Il quadro relativo ai livelli di minaccia delle specie animali e vegetali sul territorio nazionale è abbastanza preoccupante. Dalla metà del secolo scorso la biodiversità in Italia ha subito una fortissima riduzione, in particolare a causa del consumo del suolo. Fattori di pressione, quali il consumo di suolo per nuovi insediamenti civili e industriali e l’inquinamento del suolo e delle acque, continuano a esercitare la loro intensità sulla biodiversità nazionale.

Qui alcuni dati che descrivono la preoccupante situazione della biodiversità italiana:

  • 15% di specie vegetali superiori italiane è minacciato di estinzione.
  • 40% di alghe, licheni, muschi, felci italiane è a rischio di estinzione.
  • 50% delle specie di Vertebrati presenti in Italia è minacciato d’estinzione.
  • 25% delle specie di Uccelli è a rischio di estinzione.
  • 36% di specie di Anfibi è a rischio di estinzione.
  • 19% delle specie di Rettili è a rischio estinzione.
  • 57% delle specie di Chirotteri è a rischio estinzione.
  • 25% delle specie animali marine è considerato a rischio almeno per uno dei fattori considerati.
  • 14 ettari di suolo vengono persi ogni giorno (l’equivalente di 19 campi di calcio).
  • 186 specie esotiche (55 vegetali e 131 animali) sono state rilevate negli ecosistemi costieri italiani (Società italiana di Biologia Marina).
  • 52% delle specie di fauna selvatica italiana di interesse comunitario presenta uno stato di conservazione sfavorevole.
  • 55% degli Invertebrati di interesse comunitario presenta uno stato di conservazione sfavorevole.
  • 69% degli Habitat terrestri italiani di interesse comunitario presenta uno stato di conservazione sfavorevole.
  • 33% degli Habitat marini italiani di interesse comunitario presenta uno stato di conservazione inadeguato.
  • 41% dei fiumi italiani monitorati non è in uno stato di conservazione adeguato.
  • 80% dei laghi italiani non è in buono stato ecologico secondo la normativa europea.

FORESTE

Gli ecosistemi forestali ospitano globalmente l’80% della biodiversità terrestre. Negli ultimi tre secoli la superficie forestale globale si è ridotta del 40%, con picchi di oltre il 90% in 29 Paesi del mondo. Nel XXI secolo è stato perso il 10% della superficie forestale globale (una media di 5,2 milioni di ettari di foreste l’anno), in particolare in tropici e sub-tropici (70% della perdita totale). Mentre solo 10% di questa distruzione è dovuta a incendi o espansione urbana, la quasi totalità è conseguenza dell’espansione dell’agricoltura (piantagioni, coltivazioni per produzione di commodities agricole e pascoli per allevamenti intensivi) di cui oltre la metà è riconducibile a sole 7 commodities agricole: bovini, olio di palma, soia, cacao, gomma, caffè e legno. In 24 “hot-spot” di deforestazione individuati a livello globale tra tropici e sub-tropici sono stati persi 43 milioni di ettari tra il 2004 e il 2017. La Foresta Atlantica, per esempio, ha perso l’87,6% della vegetazione naturale rispetto al 1500 – gran parte durante l’ultimo secolo – il che ha reso solo negli anfibi ben 46 specie in pericolo di estinzione. In generale, le foreste tropicali, nicchia di alta biodiversità, continuano a diminuire e globalmente coprono una superficie pari a circa il 68% di quelle dell’era pre-industriale. Tra il 2000 e il 2015 sono stati persi ben 32 milioni di ettari di foreste a elevati livelli di biodiversità.

Sebbene la foresta Amazzonica sia stata per decenni cruciale nell’assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, un recente studio pubblicato il 14 luglio su Nature ha evidenziato come parte della foresta amazzonica stia ora emettendo più carbonio di quanto ne catturi. Ciò è causato principalmente da due fattori: aumento della deforestazione e cambiamento climatico con intensificazione della stagione secca e degli incendi, che provocano da un lato la riduzione della capacità di fotosintesi e dall’altro un aumento della mortalità e quindi delle emissioni. La differenza tra emissioni ed assorbimento sarebbe addirittura di 1 miliardo di tonnellate di CO2 all’anno. Da luglio 2020 a luglio 2021 la deforestazione dell’Amazzonia brasiliana è aumentata del 22%. Il numero di estinzioni documentate di piante è pari al doppio di quello dei mammiferi, degli uccelli e degli anfibi sommati tra loro. Inoltre, la valutazione di un campione di migliaia di specie rappresentative dell’ampiezza tassonomica e geografica della diversità vegetale globale, ha mostrato che una su cinque (22%) è a rischio di estinzione, per la maggior parte nei tropici (Living Planet Report 2020).

Le minacce degli ecosistemi forestali variano comunque anche in base alla regione bio-geografica. Mentre le foreste tropicali e sub-tropicali sono diminuite maggiormente a causa del cambio nell’uso di suolo, quelle boreali e temperate sono minacciate soprattutto da cambiamento climatico e incendi, così come quelle mediterranee. In Europa per esempio sono proprio cambiamento climatico, incendi, siccità, schianti da vento e infestazioni da insetti le maggiori minacce degli ecosistemi forestali. Negli ultimi anni gli incendi hanno interessato i Paesi euro-mediterranei bruciando superfici di estensione con rari precedenti: nel solo 2021 tra Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Turchia sono stati persi oltre 600.00 ettari. Uno degli incendi più violenti degli ultimi decenni ha invece colpito l’Australia nel 2019 dove sono stati persi 8,5 milioni di ettari di foreste e si stima un miliardo di vertebrati tra le fiamme: proprio questi “mega-incendi” sono in continuo aumento a livello globale.

In Italia si stima che la vegetazione sia solo il 16% di quella “potenziale”: le foreste mediterranee si sono ridotte drasticamente a partire dal Neolitico e oggi non ne resta più del 10% di quelle originali. Inoltre, in Italia – a differenza di alcune zone europee e di altre parti del mondo – nessuna foresta può ritenersi ormai vergine ovvero completamente indisturbata dall’uomo, e il 21% degli habitat forestali tutelati dalla Direttiva Habitat risulta essere in cattivo o inadeguato stato di conservazione. Scendendo a livello di specie (a livello globale), dall’ultimo Global Tree Assessment risulta che di 58,497 specie di alberi esistenti, 17,510 (29,9%) sono in pericolo di estinzione secondo la Iucn, percentuale che sale al 51,1% se si considerano in pericolo anche tutte le specie “data deficient”. Meno della metà delle specie di alberi del Pianeta (24,255 o 41,5%) sarebbe quindi non in pericolo di estinzione. La maggior parte di quelle in pericolo si trova negli Afrotropici mentre di quelle non a rischio nell’emisfero boreale (paleartico e neoartico). I maggiori fattori di disturbo per le specie di alberi risultano essere agricoltura (29%) (10), abbattimenti (27%), allevamento di bestiame (14%), sviluppo urbano (13%) e incendi (13%).

Le 3.741 popolazioni monitorate (che rappresentano 944 specie di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci) nel Living Planet Index per gli ambienti d’acqua dolce sono diminuite in media del 84% (intervallo: da -89% a – 77%), equivalente all’4% annuo dal 1970. La maggior parte dei cali si osserva tra gli anfibi, i rettili e i pesci d’acqua dolce, e sono registrati in tutte le regioni, in particolare in America Latina e nei Caraibi. Le specie attualmente minacciate sul Pianeta sono 1 milione (report Wwf “Bringing the gap” -2022). Il tasso di estinzione di specie animali e vegetali è 1.000 volte superiore a quello naturale (report Wwf “Estinzioni, non mandiamo il Pianeta in rosso” – 2021). Negli ultimi 20 anni l’Artico ha visto grandi trasformazioni nei suoi habitat, soprattutto a causa dei cambiamenti climatici. Le aree ricoperte da ghiacciai stanno diminuendo, lasciando spazio a zone acquitrinose e paludi (in aumento del 19%). In queste aree le foreste stanno sostituendo un habitat unico come la tundra, che si è ridotta del 91%. A subire l’impatto dell’uomo sono anche gli insetti, specie posizionate alla base delle catene alimentari di tutto il Pianeta. (Biological Conservation- 2019): oltre il 40% delle specie di insetti è minacciato. Nella lista rossa della Iucn sono state valutate a rischio di estinzione 58 delle 130 specie di api responsabili dell’impollinazione di colture alimentari in Europa e Nord America. Queste specie subiscono in maniera forte gli impatti del cambiamento climatico e dell’uso dei pesticidi e di altre sostanze dannose in agricoltura.

  • Il 96% della biomassa dei mammiferi è rappresentata da esseri umani e bestiame allevato.
  • Consumo del suolo a livello globale: ¾ delle terre emerse significativamente alterate dalle attività umane.
  • Zone umide le più impattate: calo dell’84% degli ambienti di acque dolci secondo il Living Planet Index in meno di 50 anni.
  • L’abbondanza media di 3.741 popolazioni di specie acqua dolce (944 specie monitorate in tutto il mondo) si è ridotta in media del 84%.

OCEANI:

  • Negli oceani negli ultimi 30 anni si è persa quasi la metà dei coralli.
  • Il 34% degli stock ittici del Pianeta è sfruttato al di sopra delle sue capacità di rigenerarsi.
  • Nel Mediterraneo la situazione è particolarmente critica: qui il 75% degli stock ittici è soggetto a sovrasfruttamento, e negli ultimi 50 anni abbiamo perso il 41% delle popolazioni di mammiferi marini, il il 34% delle praterie di Posidonia oceanica sono regredite, il 53% delle specie di squali e razze e il 13% delle specie di antozoi, tra cui i coralli, del Mediterraneo sono minacciate di estinzione.

SPECIE IN FORTE CRISI DI CONSERVAZIONE

Leone
Considerato minacciato dalla lista rossa della Iucn, il leone (Panthera leo) è scomparso dall’80% del suo areale originario ed è presente con popolazioni nell’Africa Sub-Sahariana e nell’India nordoccidentale. In India vive una sottospecie a forte rischio estinzione (Panthera leo persica), con un piccolo nucleo di circa 674 animali. In Africa la specie mostra preoccupanti segni di declino. La specie ha subito una forte riduzione in Africa negli ultimi due decenni, passando da circa 100.000 a meno di 30.000 individui. Il bracconaggio attuato dall’uomo a causa dei conflitti crescenti, come per esempio la predazione da parte del leone sulbestiame domestico, unitamente alla distruzione dell’habitat e alla riduzione delle sue prede, sono le principali cause che stanno compromettendo la sopravvivenza del leone in natura.

Elefante
In Africa esistono due differenti specie di elefante, l’elefante di savana (Loxodonta africana) e l’elefante di foresta (Loxodonta cyclotis). Mentre l’elefante di savana è ritenuto “in pericolo”, quello di foresta è addirittura “in pericolo critico”, il più alto livello di allarme, nelle categorie di rischio della Iucn. Le minacce più importanti per i pachidermi sono la crisi climatica, e il conseguente aumento di ondate di calore e siccità, il bracconaggio, dovuto in larga parte alla domanda di avorio, la perdita di habitat e i conflitti con la popolazione locale. Gli elefanti africani rimasti in natura sono poco più di 400.000 esemplari: negli ultimi 50 anni la popolazione di elefante di savana ha subito un calo del 60%, mentre la popolazione di elefante di foresta si è addirittura ridotta del 86% negli ultimi 30 anni. Si stima che circa 27.000 esemplari vengano ancora oggi uccisi ogni anno.

Tigre
Da recenti studi sono state riconosciute ben 9 sottospecie di tigre (Panthera tigris), di queste 3 si sono estinte durante il ventesimo secolo e 6 sono ancora esistenti. Sono la tigre di Sumatra, la tigre della Cina meridionale, la tigre Malese, la tigre indocinese, la tigre del Bengala e la più conosciuta tigre Siberiana. Tutte e 6 le sottospecie di tigre sono classificate dalla Iucn come “In Pericolo” o “In Pericolo Critico”. Negli ultimi 150 anni a causa del bracconaggio e della distruzione degli habitat il numero delle tigri è diminuito del 95%: nonostante alcuni timidi segnali di ripresa negli ultimi anni, ad oggi si stimano in natura meno di 4.000 esemplari.

Squali e razze
Secondo l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura pur ricoprendo un ruolo importantissimo all’interno degli ecosistemi marini il 37% delle specie di elasmobranchi, come gli squali e le razze, è minacciato. In particolare più della metà delle specie di squali è considerata a rischio estinzione. Le acque del Mediterraneo nord-occidentale sono state le più coinvolte in eventi di estinzione locale, in modo particolare Italia, Francia e Spagna, Paesi in cui gli effetti di inquinamento, cambiamenti climatici, attività di pesca non sostenibile e bycatch si sono andati sovrapponendo.

Cetacei
Anche i cetacei giocano un ruolo importante per l’equilibrio degli ecosistemi marini, perché occupano il vertice della catena alimentare e contribuiscono a mantenere in equilibrio numerico le popolazioni della fauna di cui si nutrono. Il loro numero è però in continua diminuzione e, secondo l’Iucn, 14 specie sono minacciate di estinzione a livello mondiale. Si stima che circa 300.000 cetacei all’anno muoiano a causa del bycatch, che rappresenta così la minaccia più significativa alla loro conservazione. (“Protecting Blue Corridors” report Wwf, Oregon State University, University of California Santa Cruz, University of Southampton e altri, 2022). A dicembre 2020, circa il 25% di specie tra delfini e balene è considerato a rischio estinzione dall’Iucn (In pericolo critico, In pericolo o Vulnerabili). Per un ulteriore 10% la mancanza di dati sufficienti impedisce di stabilire con certezza quanto siano minacciati di estinzione (International Whaling Commission Iwc).

Giaguaro
Il giaguaro (Panthera onca) con i soli 170.000 esemplari rimasti in natura, è una specie ombrello nonché simbolo dell’Amazzonia, uno degli ambienti più ricchi di biodiversità a livello mondiale. La specie è però ad oggi classificata dalla Iucn come prossima alla minaccia di estinzione mostrando un trend di popolazione in diminuzione. L’Amazzonia è l’habitat elettivo di questo felino – il 50% della popolazione si conta nel solo bacino Amazzonico del Brasile – e la deforestazione degli ultimi decenni ne ha messo a dura prova la sopravvivenza: negli ultimi anni il giaguaro ha perso più del 50% del proprio habitat, di cui il 15% solo nell’ultima decade. (“Strategia per il giaguaro 20-30” report Wwf)

Impollinatori
Anche gli impollinatori giocano un ruolo chiave nel mantenimento della biodiversità: il loro declino provoca a cascata una perdita di varietà di specie vegetali e da fauna che da esse dipende. Prendendo in considerazione le specie di api, l’Iucn stima che circa Il 9,2% di esse è minacciata di estinzione. I trend di popolazione mostrano come il 7,7% delle specie di api europee è in diminuzione, mentre solo lo 0,7% mostra tendenze positive. Gli andamenti demografici del 79% delle specie restano invece sconosciuti per mancanza di dati sufficienti. Inoltre, circa il 30% delle specie minacciate è endemico a livello Europeo. (European Red List Iucn of Bees, 2014) Per quanto riguarda la situazione italiana, l’Iucn ha valutato 151 specie di api, di queste 5 sono in pericolo critico di estinzione e non sono state trovate di recente, pertanto sono considerate potenzialmente estinte. Altre 2 specie sono considerate In pericolo critico, 10 specie sono In pericolo, 4 specie sono Vulnerabili: per un totale di 21 specie minacciate di estinzione. Altre 13 sono prossime ad uno stato di minaccia. Le principali minacce per le api a rischio di estinzione sono legate al cambiamento di uso del suolo: espansione e intensificazione dell’agricoltura, urbanizzazione, ma anche – per alcune specie – la riforestazione naturale in seguito all’abbandono delle aree rurali o il sovrapascolo. Alcune specie potrebbero essere sensibili al cambiamento climatico. (Lista Rossa Iucn delle api italiane minacciate, 2018).
 

CLIMA
 

Emissioni

Il capitolo 3 del rapporto Ipcc intitolato “Climate Change 2022: Mitigation of Climate Change” sottolinea che le emissioni di gas serra tra il 2010 e il 2019 sono state più alte di qualsiasi altro decennio della storia umana, e che rischiamo di esaurire la finestra di azione possibile per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Nel 2019, le emissioni di gas serra causate dall’uomo, sono state superiori di circa il 12% rispetto al 2010 e del 54% rispetto al 1990. Nel 2019, l’umanità ha emesso 59,6 miliardi di tonnellate di anidride carbonica equivalente (GtCO2e). Le emissioni nette di CO2 nell’ultimo decennio sono “circa la stessa dimensione del budget di carbonio rimanente per mantenere il riscaldamento a 1,5°C”, il che significa che un altro decennio di emissioni simili consumerebbe questo budget. La crescita delle emissioni è “variata, ma persistente” per tutti i gas serra durante l’ultimo decennio. Tuttavia, c’è anche un’alta confidenza che il tasso di crescita annuale in questo decennio sia stato inferiore a quello del decennio precedente – 1,3% all’anno per il 2010-9, rispetto al 2,1% all’anno per il 2000-9. Gli aumenti osservati nelle concentrazioni di gas serra (ghg) dal 1750 circa sono inequivocabilmente causati da attività umane. Dal 2011 le concentrazioni in atmosfera hanno continuato ad aumentare, superando nel 2019 medie annuali di 410 ppm per l’anidride carbonica (CO2), 1.866 ppb per il metano (CH4), e 332 ppb per il protossido di azoto (N2O). Nel 2021 la concentrazione media delle emissioni di CO2 è arrivata a 416 ppm (dati del Mauna Loa Observatory (MLO) alle Hawaii).

Nel 2019, le concentrazioni atmosferiche di CO2 erano le più alte degli ultimi 2 milioni di anni, e le concentrazioni di CH4 e N2O erano le più alte degli ultimi 800.000 anni. Dal 1750, gli aumenti delle concentrazioni di CO2 (47%) e CH4 (156%) superano di gran lunga i cambiamenti naturali plurimillenari tra periodi glaciali e interglaciali degli ultimi 800.000 anni. Le emissioni globali nette antropogeniche di gas serra durante il decennio (2010-19) sono state superiori a qualsiasi momento precedente nella storia dell’umanità. Gli attuali impegni climatici al 2030 sono del tutto insufficienti, rendono impossibile limitare il riscaldamento a 1,5°C molto arduo limitare l’aumento medio della temperatura globale finanche a 2°C. Per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C senza, le emissioni globali di CO2 devono raggiungere il picco “al più tardi prima del 2025” e poi scendere al 48% sotto i livelli del 2019 nel 2030, raggiungendo lo zero netto entro i “primi anni 2050”. I gas serra globali devono scendere del 43% entro il 2030 e dell’84% entro il 2050.

Aumento delle temperature

La temperatura superficiale globale nel periodo 2001-2020 è stata di 0,99°C superiore a quella del periodo 1850-1900, ed è stata più alta di 1,09°C nel periodo 2011-2020 rispetto al periodo 1850-1900, con aumenti maggiori sulla terraferma (1,59°C) rispetto all’oceano (0,88°C). La temperatura superficiale globale è aumentata più velocemente a partire dal 1970 che in qualsiasi altro periodo di 50 anni degli ultimi 2000 anni. Durante il decennio 2011-2020 le temperature hanno superato quelle del più recente periodo caldo multi-centenario, circa 6500 anni fa. La temperatura superficiale terrestre nel Mediterraneo è già aumentata di 1,5°C, ma potrebbe aumentare drammaticamente per la fine del secolo, sino a 5,6°C, dipende dallo scenario delle emissioni, dice il rapporto.

In pericolo la risorsa acqua

La siccità, anche estrema, è un fenomeno sempre più esteso e intenso a livello mondiale, che provoca effetti immediati e sul lungo periodo dirompenti, dai conflitti alle migrazioni. La siccità è diventata più frequente e intensa, specie nei Paesi del Nord del Mediterraneo, ma potrebbe aumentare ulteriormente e il livello delle precipitazioni, in generale, potrebbe diminuire tra il 4 e il 22%. Il cambiamento climatico minaccia la disponibilità d’acqua, riducendo i bassi flussi dei fiumi e il deflusso annuale del 5-70%, con conseguenze anche per la capacità idroelettrica. Sono circa 4 miliardi le persone, sui 7,8 miliardi di abitanti umani della Terra, che sperimentano già una grave carenza d’acqua per almeno un mese all’anno. Tra il 1970 e il 2019, il 7 per cento di tutti gli eventi catastrofici nel mondo sono stati legati alla siccità, ma hanno contribuito a ben il 34 per cento delle morti legate ai disastri.

Sempre più persone, circa 700 milioni, sperimentano periodi di siccità più lunghi rispetto al 1950. I rischi di siccità aumenteranno nel corso del XXI secolo in molte regioni, incrementando i rischi per l’intera economia Negli ultimi due decenni, il tasso globale di perdita di massa dei ghiacciai ha superato 0,5 metri di acqua equivalente per anno, con un impatto sugli esseri umani e sugli ecosistemi, compresi gli usi culturali dell’acqua tra le comunità vulnerabili, comunità di alta montagna e polari. Nel periodo 2011-2020, la media annuale dell’area di ghiaccio marino artico ha raggiunto il livello più basso dal 1850. Nel periodo tardo estivo è stata inferiore a qualsiasi altro periodo degli ultimi 1000 anni. La natura globale del ritiro dei ghiacciai a partire dagli anni ’50 è senza precedenti negli ultimi 2000 anni.

Aumento fenomeni estremi su scala globale

Nel 2021, ondate di calore eccezionali hanno colpito il Nord America occidentale nei mesi di giugno e luglio, con molte località che hanno battuto i record delle stazioni da 4°C a 6°C e hanno causato centinaia di morti per il caldo. Lytton, nella Columbia Britannica centro-meridionale, ha raggiunto i 49,6°C il 29 giugno, battendo il precedente record nazionale canadese di 4,6°C ed è stata devastata da un incendio il giorno dopo. Ci sono state anche molteplici ondate di calore nel sud-ovest degli Stati Uniti. La Death Valley, in California, ha raggiunto 54,4°C il 9 luglio, eguagliando un valore simile al 2020 come il più alto registrato nel mondo almeno dagli anni ’30. È stata l’estate più calda registrata in media negli Stati Uniti continentali. Ci sono stati numerosi grandi incendi selvaggi. L’incendio Dixie nel Nord della California, iniziato il 13 luglio, aveva bruciato circa 390.000 ettari entro il 7 ottobre, il più grande incendio singolo registrato in California.

Il caldo estremo ha colpito la più ampia regione mediterranea. L’11 agosto, una stazione agrometeorologica in Sicilia ha raggiunto 48,8 °C, un record europeo provvisorio, mentre Kairouan (Tunisia) ha raggiunto il record di 50,3 °C. Montoro (47,4 °C) ha stabilito un record nazionale per la Spagna il 14 agosto, mentre lo stesso giorno Madrid ha avuto il suo giorno più caldo con 42,7 °C. Il 20 luglio, Cizre (49,1 °C) ha stabilito un record nazionale turco e Tbilisi (Georgia) ha avuto il suo giorno più caldo da record (40,6 °C). Grandi incendi si sono verificati in molte parti della regione, con Algeria, Turchia meridionale e Grecia particolarmente colpite. Condizioni di freddo anomalo hanno colpito molte parti degli Stati Uniti centrali e del Messico settentrionale a metà febbraio. Gli impatti più gravi si sono avuti in Texas, che in generale ha sperimentato le temperature più basse almeno dal 1989. Un’anomala ondata di freddo primaverile ha colpito molte parti dell’Europa all’inizio di aprile.

Cambiamenti necessari

Le riduzioni dei costi unitari delle tecnologie chiave, in particolare l’energia eolica, l’energia solare e lo stoccaggio, hanno aumentato l’attrattiva economica delle transizioni del settore energetico a basse emissioni fino al 2030. Le transizioni del settore energetico a basse emissioni avranno molteplici cobenefici, compresi i miglioramenti della qualità dell’aria e della salute”. In “molte parti del mondo”, l’energia solare è più economica dell’elettricità dai combustibili fossili e in “alcuni” luoghi al di sotto del costo di continuare a far funzionare le centrali a carbone o a gas esistenti. Allo stesso modo, dice che l’elettricità dal vento onshore è più economica di quella dai combustibili fossili “in un numero crescente di mercati”. Un ostacolo evidenziato dal rapporto è il peso delle emissioni che saranno probabilmente create dalle infrastrutture di combustibili fossili esistenti e attualmente pianificate. Queste infrastrutture, inoltre, possono rallentare la transizione, nonostante ci sarebbero tutte le condizioni perché questa sia rapida. Lo smantellamento e la riduzione dell’utilizzo degli impianti a combustibili fossili esistenti nel settore energetico, così come la cancellazione di nuovi impianti, sono necessari per allineare le future emissioni di CO2 dal settore energetico con la traiettoria di decarbonizzazione. Anche se ci sono molti percorsi diversi per mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2°C, il rapporto sottolinea un certo numero di caratteristiche chiave che sono condivise in tutti gli scenari.

Queste includono:

  • Sistemi elettrici che non producono CO2;
  • Elettrificazione diffusa, anche per il trasporto “leggero”, il riscaldamento e la cucina;
  • Uso di combustibili fossili di gran lunga inferiore a quello attuale;
  • Uso di “vettori energetici” alternativi, come idrogeno, bioenergia e ammoniaca, nei settori dove l’elettrificazione non è possibile;
  • Uso più efficiente dell’energia rispetto ad oggi;
  • Maggiore integrazione tra le diverse parti del sistema energetico, come il riscaldamento, i trasporti e l’elettricità, così come tra le regioni;
  • Uso della rimozione dell’anidride carbonica (CDR) per compensare le emissioni residue.

CIBO

Tre quarti dell’ambiente terrestre e circa i due terzi dell’ambiente marino sono stati significativamente modificati dalle attività umane. La situazione non è mai stata così grave. La natura soffre di un declino “senza precedenti”: almeno l’80% della perdita di biodiversità globale è causata dall’agricoltura e dal sistema alimentare globale. L’estinzione riguarda specie ed ecosistemi sia terrestri sia marini. La pesca eccessiva, distruttiva e illegale è una delle minacce più gravi per gli ecosistemi marini. Su scala globale il 34% degli stock ittici è sovrasfruttato (nel Mediterraneo questa percentuale sale al 75%) e il 60% è pescato al limite delle proprie capacità di rigenerarsi: ciò significa che non diamo il tempo ai pesci oggetto di pesca di riprodursi. Inoltre, con la pesca distruttiva, compromettiamo gli habitat da cui essi dipendono.

Già oggi l’agricoltura consuma il 40% della superficie terrestre, è di gran lunga l’attività umana che usa più terreno in assoluto sul Pianeta, e la maggior parte di questo 40% include i terreni migliori. Non ci basta, l’agricoltura si sta espandendo ulteriormente nelle foreste tropicali e nelle savane, che però sono fondamentali per la stabilità del Pianeta, specialmente come pozzi di carbonio e riserve di biodiversità. 80% deforestazione dovuta all’espansione di coltivazioni, piantagioni e pascoli. Nel 2019 ogni 6 secondi è andata persa un’area di foresta pluviale primaria grande come un campo di calcio. I 7 giganti che dominano la distruzione delle foreste e altri ecosistemi tropicali sono (in ordine di importanza): bovini, olio di palma, soia, cacao, gomma, caffè e legno. Nonostante il vertiginoso aumento della produzione, questo non portato miglioramenti a livello globale in campo nutrizionale. Il risultato sconcertante è che il numero di persone denutrite al mondo è arrivato a circa un miliardo. Con 2 miliardi di persone, per la prima volta nella storia umana il sovrappeso e l’obesità superano la denutrizione. L’obesità è ormai considerata l’epidemia non infettiva di più vaste proporzioni del terzo millennio, per cui è giustificato il suo inserimento tra i primi problemi di salute pubblica.

Il 23% delle emissioni globali di gas serra derivano dall’agricoltura, percentuale che arriva al 37% se si considerano tutti processi di trattamento e trasporto dei prodotti alimentari, facendo del sistema alimentare uno dei principali responsabili del cambiamento climatico. Il 70% dell’acqua dolce disponibile sul Pianeta usata per produzione di cibo L’agricoltura e l’allevamento sono la causa principale dell’alterazione umana dei flussi di azoto e fosforo.

Abbiamo sconvolto la chimica del Pianeta: oggi si consumano dieci volte più fertilizzanti minerali che non negli anni ’60, che inquinano i corsi d’acqua e sconvolgono le aree marine costiere. I fertilizzanti che entrano negli ecosistemi costieri hanno prodotto oltre 400 “zone morte” oceaniche per un’estensione pari a 245.000 km2 (area appena inferiore all’Italia, 300.000 km2 ). Il 40% degli insetti impollinatori è a rischio di estinzione. Dipendono dall’impollinazione il 75% delle colture agrarie e il 90% delle piante selvatiche a fiore.

La quantità di carne prodotta è oggi quasi 5 volte maggiore di quella dei primi anni ’60: siamo passati da 70 milioni di tonnellate a quasi 337 milioni di tonnellate annue nel 2019. Il 30% della biomassa degli uccelli del Pianeta è costituito da specie selvatiche, il restante 70% è pollame da allevamento; ogni anno nel mondo vengono macellati a scopo alimentare 50 miliardi di polli, in grandissima parte (oltre il 70%) sono animali allevati in maniera intensiva (e sembra che questo numero sia destinato a salire, visto che il consumo di carne di pollo sta crescendo, soprattutto nei Paesi emergenti).

Tra i mammiferi, le proporzioni fanno ancora più impressione: il 60% del peso dei mammiferi sul Pianeta è costituito da animali da allevamento (bovini e suini), il 36% da umani e il 4% appena da mammiferi selvatici. Questo vuol dire che per 1 kg di mammiferi selvatici ci sono 15 kg di mammiferi allevati dall’uomo. Le aree urbane sono più che raddoppiate dal 1992. Oltre il 50% della popolazione umana vive in insediamenti urbani. Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, nel 2050 due persone su tre vivranno nelle città dove sarà consumato l’80% del cibo.

Abbiamo modificato persino l’ecologia dei virus. Circa il 60% delle malattie infettive che ci affliggono sono zoonosi, malattie frutto della vicinanza dell’uomo con altre specie animali. Il problema è l’accelerazione di zoonosi a cui abbiamo assistito negli ultimi anni ci dovrebbe indurre ad una seria riflessione sulla questione ecologica: utilizzo indiscriminato del suolo e vicinanza con altre specie animali che normalmente mai avremmo incontrato sono le principali cause del disastro in cui ci stiamo trovando.

Nel 2021 abbiamo esaurito le risorse rinnovabili del Pianeta (Earth Overshoot Day) il 29 luglio.

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