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Cancro: perché io ce l’ho fatta e gli altri no? Il senso di colpa del sopravvissuto

BETHANY Hart vive con marito, il figlio e tre cani ad Indianapolis, negli Usa. È sopravvissuta a un cancro della cervice uterina e su Cancer.Net – un sito che l’American Society of Clinical Oncology (Asco) dedica all’informazione dei pazienti – racconta la sua esperienza.

Bethany non elenca tutti gli stressanti, dolorosi, ansiogeni appuntamenti per le analisi, gli interventi o i controlli affrontati e, nel suo caso, superati: al web ha affidato, invece, il racconto del suo senso di colpa di sopravvissuta, cioè di quel particolare sentimento negativo che affligge a volte chi supera la malattia. Di quell’emozione che si insinua nella mente e che costringe a pensare: perché io sono guarita e la mia amica no? Perché io ho reagito alle cure mentre il tumore ha ucciso il mio vicino di letto in ospedale?
 

L’autocensura

Quando l’oncologo le comunica che è libera dal cancro e le chiede come si sente, lei – racconta – non riesce ad essere davvero sincera: dice che va tutto bene, alla grande. In sostanza si autocensura. Non dice che per colpa dei trattamenti non si sente bene, che ha dolori, fastidi e che non dimentica lo stress, psichico e fisico, che ha sopportato. “Che faccio? Mi lamento? Davvero devo snocciolare tutto quello che mi dà fastidio? –  pensa Bethany nello studio del medico mentre risponde che va tutto bene – Come potrei elencare tutti i dolori che ancora sento a causa dei trattamenti quando così tante persone stanno peggio di me? Cammino bene, perché dovrei parlare del dolore che provo ai fianchi? Come potrei dire dell’ansia delle tac o della paura delle recidive, quando le scansioni non mostrano più i segni di malattia e così tante persone che conosco stanno invece combattendo contro le recidive? Il mio oncologo penserebbe che sono pazza. Perché dovrei lamentarmi di qualcosa, quando sono viva e tanti altri che ho conosciuto nei gruppi di sostegno o in ospedale non lo sono più? (…). Tutte persone con così tanta vita davanti, stroncate dal cancro”.
 

Il lutto e l’ingiustizia

Come abbiamo anticipato, è il senso di colpa del sopravvissuto, quello di Bethany. E lei non è un caso isolato, piuttosto un caso paradigmatico, perché il sentimento della colpa non è raro tra i pazienti oncologici guariti. “I malati di cancro sviluppano legami affettivi molto intensi con le persone che hanno condiviso il loro percorso – spiega Anna Costantini, direttore della Unità Operativa di Psico-oncologia dell’Azienda ospedaliera universitaria Sant’Andrea di Roma – anche se non si tratta di amici magari di vecchia data, ma di persone con cui hanno scambiato parole, emozioni, con cui hanno condiviso una stanza di ospedale, o una sala d’attesa o un day hospital nel corso delle terapie, o che hanno incontrato in un gruppo di autoaiuto. Quando qualcuno di loro sa che un altro non ce l’ha fatta, oltre che un lutto, perché di un lutto si tratta visto che parliamo di legami forti, avverte anche una sorta di senso ingiustizia esistenziale”.
 
Lutto e ingiustizia esistenziale. Parliamo di emozioni negative e intense, non è poca cosa. Ma si superano, questa emozioni, nel tempo? “Sì, col tempo si superano – riprende l’esperta – a volte con l’impegno, con rilanciando attività significative nella propria vita: molti, più spesso donne, chiedono di fare le volontarie per poter dare agli altri quello che di buono hanno ricevuto loro, reinvestendo nella propria capacità di dare senso e significato alla vita”.

Il senso di colpa della diagnosi

Per quanto possa sembrare paradossale, il sentimento doloroso della colpa non si insinua soltanto al momento della guarigione, ma inquina i pensieri nel corso di tutto il percorso di cura, a partire dalla diagnosi. “Almeno il 50% dei pazienti oncologici e fino al 90% fa esperienza di sensi di colpa, a partire dal momento della scoperta della malattia e nel corso delle cure – conferma Costantini – con problematiche e aspetti differenti. Il cancro è una malattia in parte diversa dalle altre, perché molti dei meccanismi all’origine dei tumori sono ancora in fase di studio. Inoltre rappresenta una delle patologie più che hanno maggiore impatto sulla popolazione. Questi due elementi fanno sì che si arriva alla diagnosi già con un’idea di cosa sia un tumore, che è più o meno realistica. Per tanti anni ha avuto un certo successo un filone di pensiero secondo il quale stili di vita inappropriati, come il tabagismo o una vita sessuale libera, per esempio, o esperienze emotivamente stressanti, come una storia di relazioni frustranti, provochino il cancro. Come se ci fosse un automatismo. Un automatismo che non c’è, naturalmente, ma che a volte induce a pensare che si è responsabili della propria malattia”.
 
Un senso di colpa, o di responsabilità, privo di basi scientifiche certe, ma anche una reazione normale, però, perché in fondo tutti, quando facciamo esperienza di un evento traumatico e che non ci spieghiamo, abbiamo bisogno di un certo controllo cognitivo. “E a volte, paradossalmente, attribuire una causa a qualcosa a cui non riusciamo a dare un significato dà una qualche forma di controllo sulla situazione. Anche se è un boomerang”, avverte Costantini.
 

L’importanza di ascoltare i pazienti

“È un boomerang – riprende – perché il senso di colpa ha delle conseguenze. È documentato da ricerche che i sentimenti di colpa possono portare a negare sintomi fisici, a sensazioni di inferiorità, di inadeguatezza, a chiudersi in sé stessi, ma soprattutto il senso di colpa è causa di depressione o si accompagna a depressione. E la depressione è un fattore di rischio, perché spinge e a curarsi peggio, a saltare le visite, a trascurare l’alimentazione. Si capisce facilmente quanto sia importante cogliere presto i segnali del senso di colpa nei pazienti, facendo per esempio caso a espressioni del tipo: ‘che sarebbe successo se avessi fatto…?’, ‘come sarebbe andata se non avessi fatto…?’, ‘perché non ho seguito i consigli del medico?’ Il paziente va ascoltato e gli va lasciato tutto il tempo per rivelarsi nei suoi sentimenti e nei suoi pensieri, in questo modo diventa più facile cogliere e correggere preconcetti e false interpretazioni della sua condizione. Inoltre è utile – aggiunge la psicologa – fornire una informazione realistica, scientifica ma semplice sull’origine della malattia”. E i malati come possono aiutarsi a non cadere dalle false interpretazioni del cancro? “Diventando consapevoli che il sentimento di colpa è frequente, che non sono soli, che quello che provano è estremamente umano ma controproducente”, risponde la psicologa: “Nessuno si provoca la malattia. L’idea di esserselo procurato è una angoscia insopportabile, che non può essere accettabile”.

Il senso di colpa verso i familiari

Pazienti che si sentono in colpa per l’imbarazzo che provocano nei figli o nel coniuge per non avere più una immagine fisica socialmente accettabile. Donne che perdono i capelli per le cure e che si vergognano di andare a prendere i figli a scuola. O che hanno perso la voglia di fare sesso con i compagni e temono di infliggere un sacrificio pesante a chi amano. Padri di famiglia “colpevoli” di non essere produttivi sul lavoro com’erano prima della chemio. Uomini e donne sotto il peso del pensiero delle rinunce a cui costringono figli, magari adolescenti. Tutti questi pensieri negativi – dicono gli esperti – sono molto frequenti, specialmente tra chi ha una malattia che si cronicizza. “A questi pazienti – consiglia la specialista – va ricordato quanto loro hanno dato alla famiglia prima di ammalarsi, che è tantissimo. E che per i familiari è un grande beneficio poter restituire tutto il bene che hanno ricevuto: i figli, i coniugi sono impotenti difronte al cancro, non possono fare nulla. Quindi prendersi cura di chi amano, della madre, del padre, del compagno di una vita, è un regalo che vogliono fare, che fanno volentieri”.

La metafora del guerriero

C’è una metafora molto diffusa che riguarda il cancro: quella del guerriero. Il malato di cancro è come guerriero, il cancro come una guerra, le cure come armi, eccetera. Il fatto è che, sebbene questa malattia, come anche altre, un po’ effettivamente assomigli a una guerra, non tutti i pazienti oncologici possono, o devono, sentirsi guerrieri: tanti non riescono a essere reattivi, molti sopportano male i trattamenti. Non c’è il rischio, davvero paradossale a questo punto, che oltre a dover sopportare una malattia grave, questi pazienti possano sentirsi anche in colpa o arrabbiati perché si sentono stanchi o depressi, perché non corrispondono al modello del guerriero? “Il rischio è che queste persone possano pensare che la loro depressione possa far progredire la malattia – spiega Costantini – quindi la metafora del guerriero si può trasformare in un altro ennesimo boomerang. Nessuno è responsabile della sua malattia e di come evolve, sia che muoia a causa del cancro sia che continui a vivere”.



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