Capire il mondo attraverso gli abiti

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È appena uscito in libreria, per i tipi di Einaudi, il secondo volume de La moda contemporanea: questo volume è dedicato all’evoluzione dello stile dagli Sessanta alle ultime tendenze. A scriverlo, in due anni di studio matto e disperatissimo, è Fabriano Fabbri, docente di ‘Stili e arti del contemporaneo, Forme della moda contemporanea e Contemporary Fashion’ all’Università di Bologna. È un’opera destinata non solo agli studenti delle scuole di moda, ma a chiunque voglia decodificare i segnali che arrivano dall’oggi incastonati in una cornice storica, liberando la moda da qualsiasi connessione con futilità e superficialità, ma anche da una certa polvere intellettualistica di cui spesso l’ammantano alcuni autori.

Alla dimensione investigativa del perché e percome certe fogge si siano succedute nel corso dei decenni e quali autori ne abbiamo maggiormente merito, si affiancano aneddoti, brani di canzoni, poesie, raffronti con film o saggi filosofici, restituendo all’abbigliamento quella che è la sua funzione primaria: cucire una narrazione in grado di spiegare quel presente di cui la moda, per sua vocazione, è sempre interprete e traduttrice visiva, tattile, creativa. Fabbri racconta la moda degli ultimi sessant’anni come uno scontro tra pensieri estetici opposti, a costruire antipodici immaginari: da una parte i “frugali”, che cercano nell’avanguardia una chiave espressiva che diventa strumento da rabdomante del gusto. Dall’altra, i “citazionisti”, custodi della Storia, ancorati a un passato più agognato che vissuto, e che per esempio trova nella mania attuale del vintage una delle sue formule. In questa battaglia, che non prevede né vincitori né vinti, si muove l’autonomia di consumatori sempre più responsabili nel rappresentare sé stessi attraverso ciò che hanno indosso. Una lettura non facile, ma indispensabile per comprendere con esattezza come l’atto dello scegliere un capo sia a tutti gli effetti un’operazione culturale. Ne abbiamo parlato con l’autore.

La copertina del libro 

Perché, secondo lei, in Italia i “Fashion Studies” sono rimasti indietro, rispetto agli altri paesi? La moda contemporanea rischia di rimanere tra le poche opere di spessore accademico, e proprio nel paese considerato patria del buon gusto, del ben fatto, dell’eleganza innata…

C’è una ragione culturale e una linguistica. Nonostante sia una delle voci principali del PIL, in Italia la moda è ancora considerata un fenomeno superficiale e gossipparo, da “fashion victim”. Nel mio libro cerco di ribaltare una simile visione annodando i fili che connettono la moda all’arte contemporanea, alla musica, alla letteratura, perfino alla filosofia. La ragione linguistica, invece, ovviamente è legata al predominio dell’inglese: proprio così. La definizione anglofona Fashion Studies sottolinea il primato dell’inglese sulle altre lingue. Gli studiosi britannici e americani hanno un vantaggio enorme, scrivendo nell’idioma di Sua Maestà o degli Yankees accedono in automatico a una platea molto più ampia e godono di una risonanza accademica più incisiva.

Aver diviso gli stilisti per generazioni a seconda del decennio in cui sono nati è stata una sua scelta o una conseguenza logica del seguire un percorso cronologico?

È una scelta di metodo. Nascere “attorno a” un certo perno anagrafico vuol dire crescere sotto gli stessi influssi sociali, storici, culturali e tecnologici. Lo strumento della generazione viene da Renato Barilli, il mio maestro. Ho aggiunto la variabile, fondamentale, di una rotazione “pari” e “dispari”. In genere, gli stilisti nati “attorno a” una decade pari amano la monocromia e disprezzano la tradizione, quelli “nati attorno a” una decade dispari, al contrario, rielaborano il museo e i tempi trascorsi.

Ci può fare qualche esempio?

Prendiamo Valentino, Lagerfeld, Ungaro, o Paco Rabanne: li accomuna un filo rosso che consiste nella ricombinazione di stili del passato con i prodotti del contemporaneo. Quando nascono? Tutti “attorno al 1930”. Ora prendiamo Yamamoto e Comme des Garçons, cioè due casi tipici di rottura e sperimentazione, celebri per aver fatto piazza pulita di ogni elemento tradizionale: nascono entrambi “attorno al 1940”. Viceversa, Alberta Ferretti, Romeo Gigli o Gianni Versace vengono alla luce una decina di anni dopo, “attorno al 1950”, e infatti rivisitano la storia del costume in chiave di attualità.

Da Valentino a Balenciaga: lo stile in chiave contemporanea

Nel libro la moda contemporanea, edito da Einaudi, Fabriano Fabbri (leggi l’intervista) racconta la moda degli ultimi sessant’anni come uno scontro tra pensieri estetici opposti, a costruire antipodici immaginari: da una parte i “frugali”, che cercano nell’avanguardia una chiave espressiva che diventa strumento da rabdomante del gusto. Dall’altra, i “citazionisti”, custodi della Storia, ancorati a un passato più agognato che vissuto, e che per esempio trova nella mania attuale del vintage una delle sue formule. Ecco alcuni esempi di stile

Lei analizza la moda dai Sessanta in poi come una sorta di battaglia di stili tra i designer devoti alla geometria e alla materia dei tessuti “contro” le ultime generazioni che definisce “passatisti”, curatori più che creatori. Ma chi ci dice che la contemporaneità, non sia costituita dal ritorno al fiabesco (o addirittura all’antico), perché il futuro ci fa paura?

Di fatto ho evitato lo scontro tra creativi e curatori, ma ho applaudito sia ai citazionisti-passatisti sia alla cosiddetta moda avantgarde. Nel libro ho semplicemente sottolineato la logica di avvicendamento e di “battaglia”, quella sì, tra stilisti che viaggiano indietro nel tempo, nel “là e allora” come Thierry Mugler o Alessandro Michele, e gli altri che amano la carnalità della materia, del tessuto, dell’informe, come Rick Owens o Helmut Lang. Ci sono momenti in cui la ricerca ha bisogno di trarre ispirazione dalla storia e dalla fiaba, altri in cui la moda affonda i denti nel “qui e ora”, senza però intercettare alcuna morale, o un senso di paura.

Quindi secondo lei la moda non ha subìto il peso della pandemia?

A livello economico e comunicazionale sì, sul piano stilistico no. Sfido chiunque a dimostrare che Fausto Puglisi o Lorenzo Serafini hanno cambiato il loro profilo espressivo. Nel mio libro non c’è un accenno al Covid. Gli stili hanno vita propria e sono immuni senza vaccino a eventi pur macroscopici come l’emergenza sanitaria. 

Fare un crossover – come si direbbe in musica – tra McQueen e i Radiohead, Mary Quant e i Beatles, Valentino e il filosofo Jacques Derrida, Raf Simons e i Joy Division è quasi un azzardo. una pratica che non è esercitata da tutti. Perché la moda è considerata “a parte” rispetto alle sfaccettature della realtà?

Perché sa parlarne spesso è il chiacchiericcio del dilettante e non con quello dello studioso. Stringi stringi, moda e musica (o filosofia e cinema) dicono le stesse cose ma con linguaggi differenti. Giocando di rimandi, di connessioni, di analogie e parentele tra cultura alta e basso-popolare, con La moda contemporanea ho voluto dimostrare come le parole dei Beatles siano del tutto equivalenti agli abiti pop di Mary Quant, o come le sinfonie elettroniche dei Radiohead, così sofisticate, rappresentino la versione sonora delle invenzioni altrettanto elaborate di Alexander McQueen. A fine libro c’è pure una corposa playlist dei brani citati.

E come concilia questa sua visione con una civiltà che invece si esaurisce nell’effimero, nella velocità, nello spazio di un tweet o in una storia di Instagram, tanto che perfino Sergej Brin, fondatore di Google, ha detto: «Se volete conservare una foto, stampatela»?

Con la necessità di dare alla moda quel che è della moda, cioè il riconoscimento di una dimensione di ricerca formidabile, meditata, frutto di studio e passione, di sudore e notti in bianco. Non credo alle bolle di sapone dei blogger. Mi interessa trovare degli schemi di funzionamento, delle costanti storiche, dei «memi» che si ripetono e si rinnovano dalla nascita della haute couture a oggi.  

Che cosa ne pensa dell’evaporazione dei confini, iniziata già nei tardi anni Novanta con Prada, delle categorie «bello» e «brutto»? Anzi, sulla categoria del «cattivo gusto» sono state costruite collezioni di enorme successo.

Ne penso benissimo. Prada è l’esempio perfetto di una moda che mette assieme note volutamente dissonanti, in cortocircuiti che funzionano a meraviglia. Ma la moda lo ha sempre fatto. Mi riferisco tra gli altri a Elsa Schiaparelli, con cui la stessa Prada ha intrapreso “conversazioni impossibili” a conferma di una sensibilità comune, o a Yves Saint Laurent, che aveva intitolato Trapèze la sua prima collezione da Dior: sia per l’uso della forma “a trapezio”, ma ancor più per le giravolte e le piroette – di stile, nel caso del couturier – di un trapezista circense.

L’ingresso di temi politici, come il femminismo, la diversità sessuale ed etnica e l’inclusione, è entrato a far parte della conversazione del mondo con i grandi marchi. Qual è il suo giudizio?

Di entusiasmo e adesione totali. La moda è un punto di osservazione privilegiato per capire ciò che avviene a livello sociale: è sempre stata aperta, inclusiva, “arcobaleno”, fondata sul diverso. Non c’è stilista di cui abbia scritto che si sottrae all’obbligo di celebrare la vita in tutti i suoi aspetti di libertà. Penso ai cosmocorpi di Pierre Cardin, alla teatralità strabiliante di Moschino, all’anticonformismo di Martin Margiela, o alle creature sotterranee di Antonio Marras.

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