Cara pizza, ma quanto mi costi? Facciamo i conti in tasca ai pizzaioli (e a Briatore)

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Qual è il prezzo giusto di una pizza? La domanda può sembrare banale, ma non lo è. Ancor di più in questi giorni, che è tornata decisamente agli onori della cronaca dopo il botta e risposta a distanza tra Flavio Briatore e un ipotetico utente digitale medio, rappresentato principalmente dai pizzaioli napoletani (e dai napoletani in genere). La querelle? Sulla falsa riga di quanto già successo negli anni scorsi con la pizza di Carlo Cracco, l’imprenditore piemontese è stato considerato reo di vendere presso i suoi Crazy Pizza un prodotto eccessivamente caro, difronte a una qualità supposta come minoritaria rispetto a quella di indirizzi meno conosciuti. “A Napoli la pizza margherita costa quattro euro” è stato il grido più o meno unanime rimbalzato sui social network. Urlo di settore a cui lui ha risposto, con il suo più che conosciuto stile polemico, dicendo che “a quattro euro è impossibile proporre un prodotto di reale qualità”, e che a differenza di molte pizzerie napoletane lui nei suoi locali non solo propone un’esperienza a 360°, ma che utilizza solo materie prime di altissimo spessore. 

“Siamo quello che mangiamo” professava, e professa, Carlo Petrini, che riguardo la pizza ha sempre parlato di “magia alchemica”. Una magia che sembra talmente facile, e soprattutto risulta a tal punto immediata al palato, da creare l’illusione di una semplicità che non esiste. Nel sapore magari si, meno nella gestione di un’azienda che soprattutto in tempo di crisi non può esimersi da un’analisi reale e concreta del Food Cost. E quindi del prezzo finale al cliente. Partendo da questo abbiamo provato a dirimere la querelle che appassiona da giorni i pizza fan di tutta Italia, e non solo. 

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Il costo del cibo non si limita all’unione del prezzo degli ingredienti, ma come spiega con efficacia Michele Armano, coordinatore della Business School dell’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), andrebbe “raccontato e analizzato come Full Cost”. Ovvero l’insieme di tutte le attività della filiera della pizza, dalla farina alla corrente elettrica, arrivando fino al costo del lavoro, sempre più complesso da gestire in una realtà in cui il contratto nazionale per la ristorazione (ovvero quello onnicomprensivo per i pubblici esercizi) risulta – quantomeno – da aggiornare. 

Per poter analizzare la realtà dei fatti con oggettività, l’unica via possibile è appoggiarsi a un metodo scientifico, “l’unico valido”. Come spiega Michele Armano, “va preparata una distinta base, in cui riportare la ricetta del piatto finito”. Documento di partenza imprescindibile per un ragionamento di tipo economico, in cui “vanno specificati rese e costi per unità di misura. Il pomodoro, per esempio, andrà analizzato nel suo prezzo al chilo, rapportato poi alla quantità reale di prodotto utilizzata a seconda del disciplinare o del singolo metodo di produzione”.   

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Per poter affrontare questo percorso, la ricetta della margherita napoletana Stg, provvista di un disciplinare certificato, è la cartina di tornasole perfetta. “Su ogni disco di pasta vanno messi circa 80 grammi di pomodoro, con un prezzo medio ancora oggi che va dai 50 centesimi (che era l’accordo con l’industria di filiera pre covid) ai 70 centesimi al chilo, per una salsa di San Marzano di buona qualità”. Uno degli elementi meno impattanti, insieme all’olio extravergine di oliva che “per quanto riguarda l’utilizzo e le scelte di una pizzeria”, spiega Diego Vitagliano dell’omonima e pluripremiata pizzeria napoletana “va da un minimo di 8 euro a un massimo di media di circa 16”. 

Varianti facili da analizzare, molto diversa è la questione per quanto riguarda la farina: “Il prodotto meno impattante in assoluto sul food cost di una pizza, in quanto di media costa circa 30 centesimi, su un totale di 2/2,10 euro di media” continua Vitagliano. Una materia prima poco pesante a livello di prezzo (nonostante i rincari “di oltre il 14% da aprile a oggi” continua il pizzaiolo napoletano) ma anche quella più soggetta a oscillazioni di prezzo: “il range di una farina – spiega Armano – va da un minimo da 15 euro al massimo di 48 euro al chilo. A cui va aggiunto non solo il lievito, che per natura della ricetta è difficile da valutare da solo, ma anche le percentuali singole di farina utilizzata da ogni pizzaioli, che cambiano da locale a locale”.   

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“Il prodotto che costa di più in assoluto? Il fiordilatte”, dichiara tranchant Alessandro Condurro di Michele in The World, la società che fa capo all’Antica Pizzeria da Michele a Forcella, Napoli, con filiali in tutto il mondo. “Nel mio caso ho un costo vivo di 7 euro, iva esclusa, per ogni chilogrammo. Ma si può scendere fino a un prezzo medio di cinque euro a seconda di quanto ognuno decide di poter o voler spendere”. Il vero problema “dei latticini – spiega Diego Vitagliano – è che non smettono mai di aumentare e di creare quindi volatilità al posizionamento economico della pizza. A fine febbraio con l’aumento dei costi dovuti alla guerra, ho sforato il mio limite di food cost di oltre 6 punti percentuali. Era tutto dovuto principalmente al costo base del latte”. 

A tutto questo vanno aggiunti di media 2 grammi di basilico e 5-7 grammi di formaggio da grattugia. Il risultato è un costo medio che va dai 0,80 centesimi per un prodotto di qualità basica agli oltre 2 euro di una pizza di qualità. Nel mio caso”, conclude Vitagliano “arrivo a pagare anche 4 euro per una margherita che vendo al massimo a 6 euro. Antieconomico? No. Perché non è vero che non si può vendere una pizza di qualità a pochi euro senza truffare i clienti. Purtroppo pochi colleghi trattano la loro pizzeria come una vera e propria azienda” conclude Diego Vitagliano, ma gli fa eco anche Alessandro Condurro. “Molto spesso dietro una pizza da quattro euro non c’è una scelta aziendale o un food cost ragionato, ma imprenditori con debiti importanti nei confronti dei fornitori. Il trucco è riuscire a lavorare sui costi in economia di scala, lavorando correttamente con i produttori e acquistando le materie prime in grandi quantità, accedendo così a scontistiche importanti. Arrivando magari a marginare di più su altri prodotti in vendita, come il beverage, per poter mantenere democratico della margherita”. 

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