Carcere e porno, perché ne parliamo

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Per comprendere che cosa sia quella forma massima di privazione della libertà rappresentata dal carcere, nella sua più potente capacità di coercizione, una recente sentenza della Corte di Cassazione può valere quanto le immagini delle violenze all’interno dell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere. Vi si legge: «Anche a volerlo considerare un aspetto della sessualità, nella sua accezione più lata, l’autoerotismo non è impedito – di per sé – dallo stato detentivo. La fruizione di materiale pornografico costituisce uno dei mezzi possibili per la sua migliore soddisfazione, ma non ne costituisce presupposto ineludibile». (Sentenza Sez. 1 della Corte di Cassazione, 8 Giugno 2021). Ma perché mai la suprema corte ha dovuto esercitarsi su un simile tema, ricorrendo a strumenti di analisi e ad approcci scientifici che appartengono, palesemente, ad altre discipline? Tutto nasce dalla richiesta, avanzata da un detenuto sottoposto al regime del 41 bis, di poter acquistare una rivista pornografica.

Un primo divieto viene dalla direzione del carcere e, a confermarlo, interviene un’ordinanza del Magistrato di Sorveglianza. Quello di acquistare la rivista in questione – scrive il giudice – non corrisponderebbe a un diritto, ma a «un mero interesse alla visione delle immagini». Ma il ricorso davanti al Tribunale di Sorveglianza dà ragione al detenuto, in quanto la sua richiesta rientra «nell’ambito della libertà di manifestazione del pensiero riconosciuto dall’art. 21 Cost.»; e, in particolare, «nella tutela dell’affettività in carcere, all’interno del diritto al rispetto della vita privata e familiare, sancito dall’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani». Secondo il Tribunale di Sorveglianza il rifiuto opposto dalla direzione non è congruo, né proporzionato, in quanto non si intende quale sia il nesso tra le «finalità di tutela dell’ordine interno» e il «contenimento del diritto alla sessualità del detenuto da esercitarsi acquistando e trattenendo la stampa (pubblicazione o rivista) di genere». Ma il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non se ne fa una ragione e ricorre in Cassazione.

Quest’ultima, infine, accoglie il ricorso del DAP, evidenziando due punti. Il divieto di ingresso di giornali e riviste dall’esterno risulta legittimo in quanto «la pluriennale esperienza» ha dimostrato che «libri, giornali e stampa in genere [sono] molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, ricevendo o inviando messaggi in codice». Allo stesso tempo, la Cassazione entra nel merito della correlazione tra immagini pornografiche e autoerotismo, affermando che le prime non sono condizione «ineludibile» ai fini della masturbazione. Tuttavia, in apparenza, la ragione del divieto risiederebbe solo in motivazioni relative alla sicurezza e all’ordine pubblico.

Ma è molto difficile non intravedere, dietro la sentenza, qualcosa di altro e di più inquietante. Intanto, la convinzione che il regime di 41 bis debba essere “carcere duro”, come costantemente afferma uno stereotipo privo di qualunque fondamento giuridico. Il regime speciale, infatti, non prevede in alcun modo una detenzione più afflittiva, bensì solo ed esclusivamente l’interruzione dei rapporti tra il detenuto e l’organizzazione criminale esterna. Di conseguenza, qualunque misura che renda più vessatoria e intollerabile, o semplicemente più pesante, la vita in carcere è illegale. Tuttavia, ciò che maggiormente colpisce è l’idea di un’autorità – l’amministrazione penitenziaria – che si ritiene legittimata a interferire con la sfera più intima della persona umana (quella sessuale, cioè), a giudicarla, a vigilare sul suo equilibrio, a sindacare sulle qualità delle sue espressioni, a inibire e selezionare le sue pulsioni. Il carcere, così, diventa né più né meno che un dispositivo di mortificazione della soggettività umana.

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