Carceri colabrodo, dal cielo piovono armi. Sui droni cinque anni di allarmi ignorati

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Ci sono giorni in cui il carcere di Frosinone sembra un aeroporto di provincia: sei, sette voli di droni ronzanti che recapitano alle mani protese dalle finestre coltelli, microtelefonini, eroina. Domenica scorsa una semiautomatica calibro 7.65. Il detenuto Alessio Peluso detto “o’niro”, 28 anni, ritenuto essere l’esattore del clan Lo Russo, ha afferrato la pistola attraverso una rete di protezione sgangherata. Prima l’ha puntata contro un poliziotto per farsi consegnare le chiavi di due celle che non è riuscito ad aprire. Poi, attraverso la feritoia, ha sparato all’interno contro tre uomini (un albanese e due campani, tra cui Gennaro Esposito, figura emergente dei trafficanti di droga sulla piazza di Roma e vicino a “Diabolik” Fabrizio Piscitelli ) che lo avevano picchiato qualche giorno prima. Infine, come se tutto fosse normale, ha estratto dalla tasca un cellulare. “Avvocato, ho sparato a quei tre. Sono venute le guardie. Ora che faccio?”.

5 anni di allarmi inascoltati

È la prima volta che una rivoltella piove dal cielo dentro un penitenziario, e se non siamo qui a raccontare una strage è solo perché Peluso ha qualche problema con le serrature. Ma nessuno può sostenere che quanto accaduto nella casa circondariale di Frosinone (513 posti, 526 detenuti) non fosse prevedibile e, dunque, evitabile.
Repubblica ha consultato documenti del ministero della Giustizia dai quali viene fuori che da almeno cinque anni negli uffici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) si accumulano allarmi e segnalazioni di droni-corriere. Eppure – con l’esclusione di un progetto sperimentale di “contraerea” a Rovigo – dal 2016 niente di concreto è stato fatto per bloccare un fenomeno che, stando a quanto denunciano magistrati antimafia e gli stessi sindacati della Penitenziaria, è diventato un’emergenza. Che affligge, al pari del sovraffollamento e dell’organico ridotto (mancano 17.000 agenti), il sistema carcerario italiano.

Telefonini nei salami

Quest’anno nelle celle e nelle sezioni di isolamento sono stati trovati quasi 200 cellulari al mese, 6 al giorno. Nel 2020 i poliziotti ne avevano sequestrati 1.761, nel 2019 1.206, una trentina nel 2018. Numeri che disegnano la preoccupante parabola ascendente. Chi pilota i droni utilizza talvolta dei diversivi per evitare di essere intercettato, come si è visto a Taranto nell’ottobre di due anni fa: mentre venivano trasportati dei microtelefonini e dei wurstel infarciti di droga in una stanza al terzo piano del carcere, i complici facevano esplodere fuochi d’artificio all’esterno delle mura.
A Poggioreale hanno fermato un drone con sei cellulari appesi. Ma è niente rispetto al clamore che ha suscitato, nel novembre del 2019, la scoperta che Giuseppe Gallo detto Peppe “o’pazzo”, boss di camorra, usava serenamente tre smartphone nella sua cella di massima sicurezza in regime di 41 bis nel carcere di Parma. Non era mai accaduto prima. 
Se un capoclan può comunicare con il mondo dei liberi, è come se non fosse detenuto. L’indagine sulla modalità con cui sono stati introdotti i tre telefoni è quasi conclusa. La lunga teoria di episodi simili, però, fa pensare a canali diversi rispetto ai colloqui con i familiari o a qualche agente della Penitenziaria colluso. I droni, appunto.

La riunione ignorata

Come ha fatto il fenomeno a moltiplicarsi in meno di tre anni? È la domanda che si fanno i principali procuratori distrettuali italiani in una riunione cruciale che si tiene alla fine del 2019 presso la Direzione nazionale antimafia, a Roma. Partecipano, tra gli altri, il procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho e l’allora numero uno del Dap, Francesco Basentini. È a Basentini che i magistrati chiedono un intervento immediato e diretto. Le partite sul tavolo sono due: le schermature delle carceri, in modo da rendere inutilizzabili i cellulari. E la predisposizione di un sistema – già utilizzato negli Stati Uniti e in Francia, dove il problema è assai sentito – per intercettare i droni prima dell’atterraggio e individuarne i piloti. Nel 2014 attrezzare un istituto come Rebibbia sarebbe costato intorno al milione di euro, adesso con 300 mila si riuscirebbe. Ma non se ne fa nulla. L’amministrazione non investe.

Le ultime promesse

Il 17 luglio del 2020 è il Gom, il Gruppo operativo mobile, che dopo il caso di Peppe “o Pazzo” propone un progetto in tre step con rilevatori di segnale gsm per neutralizzare il funzionamento dei telefonini. Anche in questo caso, niente. E arriviamo a domenica scorsa, alla sparatoria di Frosinone. “Cosa deve succedere ancora affinché i vertici del Dap e il ministro della Giustizia si sveglino?”, si chiede Donato Capece, sindacalista del Sappe. “Cinque anni di silenzio sono una vergogna”, gli fa eco Gennarino De Fazio, della Uil. 
Dice il capo del Dap, Dino Petralia, dopo i fatti di Frosinone: “Il sistema dei droni è il più attuale e pericoloso. Ora si tratta di vagliare i costi e dare inizio alle procedure amministrative di acquisto”. Nel frattempo, occhio al cielo.

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