Carlo Petrini: ecco cosa provochiamo mangiando troppo salmone, sia selvatico sia allevato

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“Tutto è connesso”. Di frequente, citando Papa Francesco, mi capita di utilizzare questa asserzione per spiegare come da un evento naturale, così come da un comportamento umano, si generino conseguenze alle volte anche inaspettate. Dobbiamo avere sempre più chiaro come i nostri comportamenti possono incidere sulla vita del nostro Pianeta e di tutti i suoi abitanti. 

Ecco perché, in vista dei preparativi delle feste natalizie, voglio raccontare di uno dei protagonisti di pranzi e cene di questo periodo di fine anno; un animale che allo stesso tempo rappresenta una delle reti trofiche più incredibili che esistono in natura e che noi, per via di comportamenti incuranti, rischiamo di far scomparire: il salmone.

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Pesce d’acqua dolce e marina, grazie alle sue migrazioni il salmone si rende complice del processo di fertilizzazione di molte foreste di Canada e Alaska. Nella fase adulta i salmoni risalgono gli stessi fiumi in cui sono nati. Gli esemplari femmina, dopo lo sforzo estenuante che richiede questo viaggio, depongono le uova in siti ben riparati dalla corrente e muoiono. I maschi invece fecondano le uova e se ne prendono cura fino alla loro schiusa; per poi anche loro cessare di vivere (rilasciando importanti sostanze nutritive ai nuovi nascituri e a tutto l’habitat fluviale). Ed è proprio durante la loro risalita che, dopo aver trascorso da uno a quattro anni nelle ricche acque dell’oceano e aver raggiunto così peso e dimensioni notevoli, i salmoni diventano prede molto apprezzate dagli orsi. Quello che meno si conosce ma più affascina di questa storia è che grazie alle carcasse dei salmoni entra in circolo nell’ambiente terrestre un particolare isotopo di azoto di origine oceanica, il quale si è scoperto essere un potente fertilizzante per l’ecosistema delle foreste. Il risultato? Le foreste che sono attraversate da fiumi popolati da salmoni risultano godere di una salute migliore di quelle che ne sono sprovviste.

E noi cosa facciamo per preservare queste strette connessioni che regolano la salute di interi ecosistemi marini e terrestri? Poco o nulla.

Negli ultimi anni il consumo di salmone è aumentato a dismisura. Il 30% di quello che arriva sulle nostre tavole è selvatico, ma pescato senza alcun ritegno e spesso senza permettere all’animale di risalire il fiume e deporre le uova. Questo, oltre a mettere a repentaglio la sopravvivenza di intere specie di salmoni, ha comportato una forte diminuzione di azoto di origine marina in molte foreste del Nord America.

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Anche l’allevamento intensivo di salmone (che rappresenta il 70% del mercato) compromette la salute di innumerevoli specie animali e vegetali. Costretti a vivere ammassati in gabbie chiuse e immerse nei pressi delle coste (o in vasche tenute in veri e propri stabilimenti produttivi al di sopra del livello del mare) i salmoni di allevamento non hanno spazio sufficiente per muoversi, vivono nei loro stessi escrementi e sono soggetti a diverse malattie. Vengono quindi curati con dosi massicce di antibiotici e insetticidi (residui spesso si trovano nella carne) che, dispersi nelle acque, impattano in maniera gravosa su tutti gli ecosistemi marini. 

Non solo questo, un salmone selvatico, grazie alla sua alimentazione naturale, ha carni di un colore rosato (che in alcuni casi possono diventare rosso intenso nella stagione riproduttiva) e uniforme e nasce con l’incredibile propensione che lo porterà a risalire lo stesso fiume in cui è nato. Questo suo comportamento, insieme al fatto di aver vissuto tutta la vita in mare aperto, determina un basso tasso di tessuto adiposo. I salmoni di allevamento, invece, non godono di queste caratteristiche. Nutriti con mangimi a base di altri piccoli pesci (affinché un salmone “ingrassi” di un kg sono necessari 5 kg di altro pesce), cereali e soia, la loro carne è molto più sbiadita. Questo non è ammissibile in un mercato che utilizza il colore della carne come primo criterio di valutazione della qualità del salmone. Ecco che per il pesce allevato è diventata ormai la prassi aggiungere coloranti e additivi in modo da accontentare l’occhio del cliente. Inoltre, fortemente limitati nei loro movimenti, i pesci allevati risultano essere molto grassi e, se la loro dieta è ricca di vegetali, presentano percentuali minori di quegli omega-3 tanto importanti anche per la nostra salute. 

Insomma, che sia di allevamento oppure no, il consumo spropositato di salmone ha dei risvolti davvero sorprendenti e preoccupanti. Proprio nel periodo tra Natale e Capodanno la domanda di questo pesce sul mercato triplica, accelerando così sugli effetti negativi sin qua riportati.

Il mio auspicio è quello che l’avvicinamento di questo particolare periodo dell’anno ci possa vedere più attenti e consapevoli. Consiglio dunque, durante i preparativi di pranzi e cenoni con amici e parenti, di ben indirizzare le proprie scelte. Ricordiamoci che, anche se ci possono sembrare molto distanti, come ad uno sguardo superficiale sembrano esserlo pesci e alberi, i nostri comportamenti quotidiani sono strettamente connessi alla salute di uomini, animali e interi ecosistemi.

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