Chi era Pippo Micalizio: dalla lotta alle mafie del nord a ispettore sull’orrore del G8

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Pippo Micalizio incarnava, se così si può dire, “il poliziotto democratico moderno”. C’era stata, nel dopoguerra, la polizia militare, con i suoi marescialli che conoscevano la strada e non raramente menavano le mani.

La figlia di Pippo Micalizio, il superpoliziotto anti-mafia, scomparsa all’Isola d’Elba. Trovati il cane morto, gli occhiali e il cellulare

Il sindacalista del Siulp

Negli “anni di piombo” c’era una polizia che, per coprire la politica e gli ordini gerarchici, taceva e stava a testa bassa. Micalizio era entrato in servizio nel ‘69, l’anno della strage di piazza Fontana (12 dicembre, Banca dell’agricoltura di Milano, compiuta dai neofascisti e per anni falsamente attribuita agli anarchici), ed è stato uno storico sindacalista del Siulp. E cioè del più numeroso e forte sindacato di polizia, quello che di fatto ha tolto le stellette dalle divise, smilitarizzato la polizia, coinvolto i semplici agenti in alcune decisioni, specie sui turni di lavoro.

All’ufficio Immigrazione

Non amava l’ostentazione del potere, ma dentro i suoi uffici faceva sentire la sua “mano”. A Milano aveva cominciato come responsabile di quello che si chiamava Ufficio immigrazione, l’attuale Ufficio stranieri, e c’era stato a lungo: anche in questo caso, in anni in cui l’immigrazione arrivava a cambiare il volto delle città, e di Milano soprattutto, aveva impresso un rispetto verso quelli che considerava futuri cittadini e pugno di ferro per i troppo furbi. Più volte ha colpito chi favoriva l’immigrazione clandestina. Nelle conferenze stampa, eterna sigaretta in mano, voce roca, impercettibile accento siciliano, gomiti larghi sulla scrivania, spalle leggermente curve, bisognava strappargli le parole di bocca.

La lotta alla mafia del nord

Era stata una sorpresa vederlo succedere al vulcanico Achille Serra come capo della Mobile, ma seduto su una delle poltrone più operative di Milano, al primo piano della palazzina interna della questura di via Fatebenefratelli, Micalizio aveva puntato subito i riflettori sulle penetrazioni della mafia al Nord, sul narcotraffico (capo della sezione era Massimo Mazza, che avrebbe fatto carriera anche nell’antiterorismo), su quella che si chiamava microcriminalità, ma era anche quel tipo di criminalità di strada che rende complicata la vita dei cittadini. Idee chiare, sempre poche parole nelle conferenze stampa, ma aveva cominciato a sorridere di più: ed era prodigo di discorsi privati, se capiva che l’interlocutore era interessato a comprendere i fenomeni socio-criminali, per lui Milano era una delle capitali della mafia e quello che contava a Palermo contava a Milano (e viceversa).

L’informativa sul sodalizio Cosa Nostra-‘ndrangheta

Uno così, d’improvviso, lasciò il suo incarico per la neonata Dia, direzione investigativa antimafia. Un inedito italiano, sul modello del Fbi: se la mafia si muoveva su tutto il territorio, era bene avere investigatori che facessero lo stesso. E fu lui, restando sempre dietro le quinte, a fornire i migliori investigatori per lavorare notte e giorni sulle stragi di Giovanni Falcone prima (23 maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 luglio) poi. Nel marzo del 1994 scrisse un’ “informativa”, come vengono chiamati alcuni documenti riassuntivi, per stabilire come Cosa Nostra, responsabile dei massacri palermitani e delle bombe a Roma, Firenze e Milano di quel funesto 1993, avesse legami solidi con la ‘ndrangheta.

Gli attentati per far decadere il 41bis

E aveva intuito, aiutato anche da vari “pentiti”, un legame tra quegli attentati per far decadere il carcere durissimo (art.41 bis), attentati voluti dai boss di Corleone e dalla Cupola, con altre azioni simili del passato, quando anche criminali avevano piazzato bombe sui treni. La sua informativa suggeriva di non guardare solo al “già noto”, e cioè ai palermitani, ma anche all’Aspromonte, specie ai clan di Platì (che a Corsico, vicino Milano, avevano e hanno alcuni terminali potenti).

La più grande inchiesta contro i clan di Platì

Platì – bisogna ricordarlo – era stato anche un punto di riferimento per la più grande inchiesta realizzata a Milano contro la ‘ndrangheta: grazie al magistrato Alberto Nobili, al poliziotto Massimo Gallo, al Mazza già citato e a Micalizio, era stato sferrato un attacco ai clan dominati dai Papalia grazie al pentimento di Saverio Morabito. Il quale aveva contribuito pesantemente con le sue rivelazioni a svelare non solo l’organigramma, omicidi, sequestri come quello clamoroso di Cesare Casella (due anni, dall’88 al ’90, ostaggio dei clan), ma anche le abitudini più private di sgarristi e santisti. Morabito, un “manager calibro 9”, adesso è tornato in galera e anche quella stagione d’indagini così penetranti appare lontana. L’ultima venne firmata da Ilda Boccassini, con i Ros, ed emerse dai filmati investigativi un giuramento di affiliazione in diretta.

L’ispettore ministeriale sulla tragedia del G8

Micalizio, occhialoni da miope, spesso di foggia squadrata, giacche chiare, era diventato in breve un uomo del quale le stretture di polizia si fidavano per portare trasparenza. Venne mandato lui, come ispettore ministeriale, a valutare la tragedia del G8 di Genova (luglio 2001), con l’irruzione dei poliziotti alla Diaz e il pestaggio di chi dormiva: un “modus operandi” che a lui, cresciuto con l’idea del poliziotto al fianco del cittadino, ripugnava. Era rimasto a Roma, Dia, Sco (servizio centrale operativo) e altri incarichi, una carriera dentro gli uffici, silenziosa come sempre, e come sempre molto efficiente, finché un tumore l’ha stroncato nel 2005, a soli 60 anni.

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