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Chianti, Tokay, Porto, Bordeaux: tutti i vini di Sherlock Holmes

Dopo aver risolto il caso noto come The adventure of the Noble BachelorSherlock Holmes decise di festeggiare con una cena “degna di un epicureo”, corredata da “un gruppetto di vecchie bottiglie coperte da preziose ragnatele”. Sapeva come trattarsi, al momento giusto, il detective di Baker Street.  Aduso al digiuno nei momenti più difficili e disinteressato ai piaceri terreni, se concentrato in un’indagine, l’alto  e magro investigatore privato era consapevole che un’importante inchiesta giunta a buon fine richiedeva un pasto adeguato sul quale, sia ben chiaro, non era certo opportuno lesinare. Così, nei sessanta fra racconti e romanzi  che riportano i successi del primo “consulting detective”, non mancano esperienze culinarie sopraffine che culminano col bicchiere giusto.  Circostanza che, naturalmente, richiede un’indagine approfondita. Forse da tre pipe, come vuole la tradizione sherlockiana, ma certamente almeno da tre bottiglie.

Il mondo sherlockiano

Prima di partire, è necessaria una premessa.  Nel mondo esistono più di 900 associazioni di appassionati di Sherlock Holmes, sparse in tutti i continenti, più o meno strutturate, di dimensioni variabili, ma tutte accomunate dal desiderio di approfondire la conoscenza del personaggio attraverso le sue diverse interpretazioni: letterarie, teatrali, cinematografiche o di qualunque altro medium che se ne sia occupato. I puristi – holmesiani o sherlockiani che dir si voglia – ritengono, forzando un po’ i fatti storici, che Holmes sia esistito realmente e Watson ne sia stato l’unico biografo, assistito, forse, da uno scrittore suo amico, che si sarebbe occupato della pubblicazione delle sue storie in qualità di agente letterario, di nome Arthur Conan Doyle.

Questo è il dogma centrale se si vuole giocare quello che viene definito il Grande Gioco. Ma non tutti sono così fondamentalisti. Ci sono anche studiosi, o semplici appassionati, che considerano il “Canone” (così sono definiti i quattro romanzi e i 56 racconti firmati da Sir Arthur Conan Doyle) un buon esempio di letteratura popolare, nel quale ha preso forma un personaggio che ha assunto le dimensioni di un archetipo, al di là delle intenzioni del suo stesso autore, ritenendo che lo stesso Canone rappresenti, al pari di romanzi altrettando popolari ad esso contemporanei, un eccellente spaccato della società vittoriana, con le sue luci e le sue ombre, con i suoi valori e le sue contraddizioni.

In entrambi i casi, quindi, si può partire dalle avventure di Sherlock Holmes per approfondire qualsiasi tema in una prospettiva storica e si possono comparare le abitudini e i costumi degli Inglesi dell’Ottocento con quelli di altre popolazioni coeve o con quelli dei nostri tempi.

Il vino nell’Inghilterra vittoriana

Nel ‘700, in Inghilterra, il consumo di alcolici, gin in particolare, aveva proporzioni drammatiche, tanto che nel 1751 era stato necessario promulgare il Gin Act, una legge che servì soprattutto a ridurre la produzione di gin casalingo, di pessima qualità, ricco in metanolo e arricchito con altre sostanze irritanti, come trementina e acido solforico, che ne aumentavano la forza, infiammando le mucose e dando sensazioni intense ai bevitori incalliti. Tuttavia, il consumo di questo superalcolico, che aveva enormi conseguenze negative tanto sulla salute della popolazione quanto sull’insorgenza di comportamenti antisociali di ogni tipo, non si ridusse in modo significativo finché non intervennero altri due fattori: 1) la progressiva affermazione del come bevanda nazionale, che durò per tutto il XVIII secolo ed ebbe un definitivo impulso nel 1834, con l’inizio della coltivazione del tè in India;  2) il sostegno che il governo inglese diede alla produzione e al consumo della birra, contrapponendola al gin, dapprima con il Beer Act del 1830, che incoraggiava la vendita della birra da parte di privati e, in seguito, con il Wine and Beer House Act del 1869, che regolamentò in modo definitivo la produzione e la vendita delle bevande alcoliche.

Al tempo di Sherlock Holmes, il tè era finalmente diventato bevanda nazionale, il gin si era trasformato, con le moderne tecniche di distillazione, in uno spirito “quasi” nobile – anche se non raggiunse mai i livelli sociali di whisky e brandy (o cognac) – e la birra si era imposta come la bevanda alcolica del popolo.

E il vino? Il vino, nell’Inghilterra vittoriana, era riservato alle classi sociali più elevate e anche in quei casi non era una bevanda di consumo quotidiano, essendo servito in occasioni particolari, se si eccettuano i vini bevuti come aperitivi (come lo Sherry) o a fine pasto (come il Porto) il cui consumo, invece, rappresentava un’abitudine diffusa, ma sempre negli ambienti più raffinati.

Per questo motivo, nel Canone le citazioni del vino sono molto meno numerose di quelle della birra o di altri alcolici.

Sulla base di queste citazioni, cosa possiamo affermare a proposito dei rapporti tra Holmes e il vino? Lo beveva? Quale e quando? Era un conoscitore o si limitava a consumarlo distrattamente?

Basandoci rigorosamente sul testo, cercheremo di fare un resoconto completo sia dei vini che Holmes e Watson hanno bevuto direttamente, sia di quelli che vengono nominati, a vario titolo, nel corso delle indagini. Alcuni hanno un’identità meglio definita, essendo citati almeno con il nome del vitigno, o dell’uvaggio, altri invece sono entità più evanescenti, diremmo eteree.[1]

Un pranzo all’Holborn

Nel Canone si parla di vino per la prima volta nella seconda pagina di “A Study in Scarlet”, il romanzo d’esordio della coppia Holmes/Watson. Quella mattina, Watson ha incontrato per caso, al Criterion Bar, un assistente di sala operatoria di nome Stamford con cui aveva lavorato in passato e, “nell’impeto della gioia” di questo incontro inaspettato, lo ha invitato a pranzo all’Holborn, uno dei più famosi ristoranti dell’omonimo quartiere, oggi un po’ decaduto, ma allora decisamente di livello. Nonostante l’alcool avesse segnato duramente la vita di Watson, portandogli via un fratello, morto per le conseguenze del suo alcolismo, il Buon Dottore non era astemio, come del resto – si saprà in seguito –  nemmeno Holmes. Come per altri gentiluomini suoi contemporanei, un pranzo di un certo tenore non poteva che essere accompagnato da una buona bottiglia di vino, ovviamente di importazione. In quell’occasione, Watson e Stamford si trovano a parlare per la prima volta di un originale conoscente del secondo, che avrebbe bisogno di condividere le spese di un appartamento in affitto. Inutile specificare chi sia il conoscente in questione. Il dialogo avviene a tavola, davanti a un bicchiere di vino (non meglio identificato), ma sicuramente scelto con cura, perché l’occasione è per entrambi importante. Il vino, come accade molte altre volte nelle avventure narrate da Watson, sancisce la solennità, quasi la sacralità, dell’evento.

La possibilità di identificare con una corretta investigazione di quale vino si tratti appare qui inverosimile, a meno di non avventurarsi in elucubrazioni fantasiose.

Bevitori raffinati

Nel secondo romanzo, “The Sign of the Four”, abbiamo la conferma che Watson beve vino, che il vino è presente, in alcune speciali occasioni, sulla tavola della coppia Holmes/Watson e che rappresenta, anche per altri personaggi dei racconti, una bevanda speciale, da offrire o consumare in particolari circostanze.

Nella prima pagina di questo libro, Watson confessa al lettore di aver bevuto “Beaune” a pranzo e che, forse per quello, la sua tolleranza di fronte ad alcuni comportamenti criticabili di Holmes si è sensibilmente ridotta. Anche qui, l’identificazione del tipo di vino in questione appare difficile, ma almeno il campo si restringe. Con il termine Beaune si indicano infatti vini di Borgogna originari della Côte de Beaune, tanto bianchi quanto rossi. Entrambi sono monovitigni, i bianchi sono Chardonnay, fruttati, con acidità spiccata, note minerali e sentori di frutta secca; i rossi sono Pinot Noir, rotondi e con grandi potenzialità di invecchiamento. Non conosciamo quindi né il colore del vino, né l’annata, né tanto meno il produttore, ma già abbiamo una conferma che i gusti di Watson, come quelli della maggior parte dei suoi connazionali, si orientavano in genere su vini di importazione, per lo più francesi. Dato, questo, che sarà confermato da molti indizi successivi e che, almeno per quanto riguarda Holmes, si può decisamente mettere in relazione con le origini dei suoi ascendenti, in particolare la nonna, che era francese, appunto, come dichiara in “The Greek Interpreter”.

Successivamente, Holmes e Watson si recano, in compagnia di Mary Morstan (la cliente di Holmes che poi diventerà la signora Watson), a trovare uno dei due fratelli Sholto, Thaddeus, per farsi raccontare la storia del tesoro di Agra, intorno al quale ruota tutta l’avventura. Thaddeus, un dandy raffinatissimo, al limite dell’affettazione, offre alla signorina due vini, come gesto di cortesia: un Chianti e un Tokay, dichiarando di non avere altre scelte nella sua cantina. Su questa affermazione sono state fatte diverse ipotesi, che riguardano tanto i due vini in questione quanto il carattere del padrone di casa. C’è da dire, infatti, che Sholto è, oltre che un personaggio dai modi singolari, come detto, anche un evidente ipocondriaco, che non perde l’occasione di cercare di strappare una diagnosi “omaggio” a Watson. Questo aspetto del suo carattere ha fatto ritenere che la scelta dei due vini – presenze esclusive in casa sua – abbia a che fare con una sua impostazione salutista: a fronte delle note sofisticazioni dei vini provenienti da altre origini, i vini italiani e  ungheresi avrebbero garantito la loro genuinità e, bevuti con moderazione, avrebbero avuto un potere taumaturgico, soprattutto nei confronti della sua temuta angina pectoris.[2]

Il Chianti (non solo quello classico, ma anche quello prodotto nelle altre province toscane) era ben noto agli Inglesi che amavano la Toscana per i suoi tesori artistici e culturali e aveva avuto il grande vantaggio di non essere stato – ancora – colpito dalla fillossera, che invece aveva devastato le coltivazioni francesi. Il risultato era che i francesi avevano dovuto far fronte alla distruzione dei vigneti realizzando nuovi impianti, con conseguente riduzione di produzione, mentre la produzione italiana negli anni dal 1870 al 1890 era raddoppiata. Il vino italiano, quindi, ebbe in quegli anni una grande fortuna e una grande diffusione. 

Il Tokay di cui si parla, invece, non è quello di origine friulana che noi italiani abbiamo chiamato così (o meglio, Tocai, con la “c”) per tanti anni, prima che la normativa europea ce lo impedisse, costringendoci oggi a chiamarlo “Friulano”. Si tratta, piuttosto, di quello ungherese, più precisamente dell’Hungarian Imperial Tokay. Qualcuno ha pensato che potesse trattarsi del Tokay alsaziano, ma non ha tenuto conto che quel vino era praticamente sconosciuto al di fuori dei confini dell’Alsazia fin dopo la Prima Guerra Mondiale. Invece, il Tokay ungherese era molto noto ed apprezzato e, come ricorderà molti anni più tardi lo stesso Holmes, bevendone con gusto una bottiglia assieme a Watson in “His last Bow”, era uno dei vini più rappresentati nella cantina dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Si tratta di un vino da meditazione, che deve i suoi profumi, oltre che ai vitigni con cui è realizzato (Furmint, Harslevelu, Moscato Giallo), alla presenza su alcuni grappoli della Botrytis Cinerea, la stessa muffa nobile cui si devono i profumi e gli aromi del francese Sauternes.

Vini di grande finezza e accompagnati da una fama di salubrità, ottimi per un consumatore raffinato e igienista come Sholto, ma anche molto adatti ad essere offerti ad una gentile signorina (che comunque declinò l’invito).

Infine, nel medesimo romanzo, Holmes e Watson invitano a cena il funzionario della polizia investigativa Athelney Jones, che si sta occupando del caso, per prepararsi alla fase conclusiva delle indagini, orientate correttamente da Holmes. In quella occasione, per innaffiare le ostriche e i due galli cedroni serviti a tavola, fu proposta da Holmes “una piccola selezione di vini bianchi”. Ma quali vini? Escludendo lo Champagne, che in abbinamento con le ostriche è soltanto un luogo comune, nel quale Holmes non sarebbe mai caduto, i due vini che oggi si ritiene accompagnino meglio il mollusco tanto amato [3] da Holmes sono il Muscadet, più tradizionale, e lo Chablis, in inarrestabile ascesa. Tuttavia saremmo portati a escluderli entrambi, sia per la loro difficile reperibilità nel Regno Unito ai tempi di Holmes, con conseguente limitata diffusione della loro conoscenza, sia perché non altrettanto adatti, almeno il primo, ai galli cedroni. Propenderemmo, perciò, o per un Montrachet o per un Borgogna bianco, in grado, per i profumi e per la struttura più decisa, di sostenere due portate così diverse tra loro. Da notare, per inciso, che in questa occasione, Holmes si vanta con Watson delle sue doti di “housekeeper”, facendo intendere, per questa sola volta, di aver cucinato lui, senza l’ausilio della Signora Hudson (la proprietaria dell’appartamento al 221B di Baker Street, che lo aveva affittato a Holmes e Watson e che fungeva anche da governante) che, infatti, non è nemmeno nominata.

La cena si conclude con un brindisi, proposto da Holmes, all’auspicato successo dell’avventura, a base di Porto. Qui siamo in piena tradizione britannica. La letteratura sulle origini di questo vino liquoroso portoghese vuole che siano stati gli inglesi ad inventarlo, per caso. Nel 1600, la crisi dei rapporti con la Francia e i buoni rapporti con il Portogallo spostarono le importazioni di vino dalla regione del Bordeaux alla valle del Douro. Il viaggio però avveniva via mare, da Oporto a Dover, e il vino ne soffriva, perdendo stabilità. Così, per preservarlo, alcuni mercanti britannici lo avrebbero tagliato con acquavite. Questo intervento, però, non soltanto lo stabilizzava, ma ne arrestava anche la fermentazione, lasciando un residuo zuccherino non trasformato in alcool. Il risultato fu un vino che, mantenendo i profumi che gli erano propri, aveva anche un gradevole gusto dolce e un caldo sentore di alcool. Da allora gli inglesi lo adottarono come vino da fine pasto, da meditazione, e ne curarono la produzione diversificata con diverse aziende produttrici, molte delle quali rimaste immutate nel tempo.

Nel Canone, il Porto è citato infatti diverse volte, oltre che in questa prima occasione. In “The Gloria Scott”, un’avventura occorsa a Holmes prima che conoscesse Watson, lo stesso Holmes ne bevve un bicchiere, dopo cena, con i due Trevor, padre e figlio, dei quali era ospite.

Inoltre, quando i due amici si recarono a Camford, la misteriosa città universitaria in cui lavorava il professor Presbury (il cui comportamento insolito aveva richiesto l’intervento del detective, cfr. “The Creeping Man”), Holmes scelse la locanda in cui avrebbero alloggiato perché, tra le altre cose, ricordava che servivano un eccellente Porto. E infatti, quando la sera si fermarono nel salotto dell’albergo, a riflettere su quanto accaduto nel corso della giornata appena trascorsa, Watson poté constatare di persona che il detective non aveva ricordato male: il Vintage Port che bevvero assieme era davvero all’altezza della situazione.

Bottiglie polverose

Lo abbiamo già visto. Al termine dell’avventura che vide Holmes risolvere il mistero della scomparsa di Hatty Doran, subito dopo le sue nozze con Lord St. Simon, il detective decise di festeggiare con una cena raffinata, corredata da “vecchie bottiglie coperte da preziose ragnatele”. Come sanno bene gli intenditori di vino, non tutti i vini migliorano con l’età. Anzi, solo alcuni vini dotati di una particolare struttura iniziale reggono l’urto del tempo e acquisiscono caratteristiche particolari nel corpo, quali morbidezza, pienezza e rotondità, e nei profumi, definiti terziari, tipici dei vini ben invecchiati, molto complessi e inconsueti, quali lo speziato, il legnoso, l’etereo, il tostato. Holmes, ovviamente, sa bene che cosa sta presentando per accompagnare due pernici, un fagiano e una terrina di patè de fois gras. A noi, come agli esperti che si sono cimentati prima di noi nell’impresa, il compito di provare a indovinare quali siano questi vini, anche se, secondo lo stesso Holmes, “indovinare è una pessima abitudine…”

Come abbiamo detto, siamo convinti che Holmes, in genere, si orientasse su vini francesi. In questo caso, diremmo senz’altro rossi, più adatti all’invecchiamento e alla cacciagione, e di un’annata che si fosse presentata straordinaria, al punto da suggerire ai commercianti di tenerne alcune bottiglie di riserva per gli anni seguenti. La storia si svolge nel 1888: le annate precedenti che sono state ricordate come speciali sono il 1858, il 1864 e il 1865. A nostro parere, la scelta si restringe ai vini di Bordeaux o di Borgogna, con una preferenza, trattandosi di Holmes, per i primi (mentre forse Watson, se avesse dovuto scegliere lui, si sarebbe orientato sui secondi). Quanto all’etichetta, al produttore o al cru non ci sentiamo di andare oltre, perché non abbiamo dati sufficienti.

Ma, nella medesima storia, Holmes ci rivela anche di essere un conoscitore dello Sherry, o almeno dei suoi costi alla mescita, perché attraverso l’analisi di una nota spese, ricostruisce, proprio dal prezzo di un bicchiere di Sherry, che in un solo albergo di Londra, di gran lusso, si sarebbe potuto pretendere da un cliente che spendesse tanto.

Come abbiamo già detto, l’abitudine di bere un bicchiere di Sherry come aperitivo era molto diffusa tra i gentlemen e Holmes non poteva certo fare eccezione.

Un equivoco tutto italiano: il mistero del Claret

Concludiamo questa rassegna sulla presenza del vino nelle avventure di Sherlock Holmes con una questione che riguarda soltanto le versioni italiane delle stesse. Purtroppo, le traduzioni che si sono succedute nel tempo, se hanno il merito indubbio di aver contribuito a rendere popolare il detective anche nel nostro Paese, non sono state così accurate come i lettori più esigenti desidererebbero. Gli esempi di fraintendimenti sono molto numerosi e in genere hanno a che fare con una scarsa propensione dei traduttori a calarsi nel contesto culturale e storico di riferimento, ma non è questa la sede per discuterne. Noi parleremo qui soltanto di uno svarione, ripetuto nel tempo, nella traduzione di un termine che si riferisce ad un preciso tipo di vino.

Nelle tre occasioni in cui, nel Canone, si parla di “Claret”, i principali traduttori italiani delle avventure di Sherlock Holmes hanno reso questo termine con “Chiaretto”, incorrendo in un evidentissimo errore, per la scarsa conoscenza della terminologia enologica britannica e per non aver valutato il contesto in cui è stato utilizzato.

Il Chiaretto, – o, meglio, Bardolino Chiaretto – è un vino rosato italiano, originario del territorio circostante il Lago di Garda, delicato, leggero di corpo, dai profumi sottili, mentre gli inglesi, con il termine Claret, hanno sempre definito i vini rossi francesi della regione del Bordeaux – quelli che noi chiamiamo “Bordeaux” tout court, per intenderci – dotati di grande struttura e intensità. [4]

Storicamente, la prima volta in cui se ne parla è in “A case of identity”, storia nella quale sappiamo che James Windibank, il perfido patrigno della sventurata cliente di Holmes, era impiegato come rappresentante presso “Westhouse and Marbank”. Questi grandi importatori di vino di Fenchurch Street, erano sicuramente poco interessati all’importazione di qualche bottiglia di Bardolino Chiaretto del Lago di Garda, bevuto nel Regno Unito da poche decine di consumatori in cerca di sensazioni delicate, e molto più orientati su casse di robusto Bordeaux, più commerciabili presso un’utenza tradizionalmente alla ricerca di gusti decisi. Quindi, traduzione decisamente errata.

La seconda storia è “The Cardboard Box[5], in cui Watson ci racconta che, in una pausa delle indagini, lui e Holmes, dopo aver parlato a pranzo esclusivamente di violini, continuarono a conversare per più di un’ora, divagando su Paganini, davanti a una bottiglia di Claret. Anche in questo caso, considerando che Watson ha definito il pranzo “soddisfacente”, ci sembra decisamente più verosimile che il vino che lo ha accompagnato e che poi è rimasto a tavola, mentre i due amici chiacchieravano, sia un vino di corpo, caldo, pieno, piuttosto che un garbato e  profumato rosato.

Infine, Holmes, fintosi moribondo per ingannare un criminale che voleva fargli la pelle, al termine della recita, raccontata da Watson in “The Dying Detective”, svelato il trucco e assicurato alla giustizia l’assassino, si rifà delle privazioni sopportate con un bicchiere di vino e dei biscotti, nell’attesa di soddisfare meglio il suo appetito con una bistecca da Simpson’s. Anche qui, non ce lo vediamo proprio, il Chiaretto, a svolgere questa funzione di ricostituente: molto più credibile un buon bicchiere di Bordeaux che, come dice il proverbio, “fa buon sangue”. Una frase che potrebbe rimandare a un’altra storia vittoriana, quella del Conte Dracula. Anche se,  come vuole la tradizione, è sempre meglio non mescolare la cronaca di un grande investigatore realmente esistito, che ha salvato l’Inghilterra in numerose occasioni, con la leggenda di un diavolo che vive solo nella letturatura fantastica. O, almeno, così pare.

Stefano Guerra [6] 

Note

[1] In questa breve trattazione non possiamo mancare di ricordare, oltre ai molti lavori in lingua inglese che sono comparsi negli anni sulle pubblicazioni dedicate al detective, negli Stati Uniti o nel Regno Unito, il ponderoso lavoro di Patricia Guy, “Bacchus at Baker Street” (iUniverse, New York, 2007), che analizza molto più analiticamente alcuni dei temi trattati qui, con grande competenza professionale, al quale rinviamo i lettori che desiderassero approfondire l’argomento.

[2] V. Guy, Patricia, Op. cit.

[3] Ma inspiegabilmente anche, inconsciamente, temuto… Cfr. “The Adventure of the Dying Detective”

[4] Da non confondere ulteriormente con il Bordeaux Clairet (con la “i”), che è un rosato carico, proveniente dallo stesso territorio.

[5] racconto apparso sullo Strand Magazine nel 1893, ma poi escluso dalla raccolta pubblicata in volume perché ritenuto troppo sanguinario e ripubblicato solo molti anni dopo, nel 1917.

[6] Medico, neuropsichiatra infantile, psicoanalista, sommelier non professionista, Stefano Guerra è uno dei fondatori dell’associazione italiana di appassionati di Sherlock Holmes, “Uno Studio in Holmes”. 



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