Cingolani: “Ai miei figli ho detto che era impossibile fare di più. L’India ci ha messi spalle al muro”

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UN pomeriggio in famiglia, dopo 14 giorni a fare la spola tra Roma e Glasgow». Anche il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è tornato a casa dopo il tour de force che Cop26 ha imposto alle delegazioni di tutto il mondo: due settimane di negoziati sul clima, a tratti drammatici, come nella seduta finale, con il braccio di ferro sull’addio al carbone. Plenarie in cui è andato in scena anche un cortocircuito generazionale, con politici di lungo corso come il vicepresidente Ue Timmermans che ha mostrato il nipotino («Facciamolo per lui, avrà 30 anni nel 2050»), il rappresentante di Tuvalu Seve Paeniu che ha risposto mostrando i suoi di nipoti («Vivono su una terra che sta già affondando»), tanti altri delegati dei Paesi più vulnerabili ai cambiamenti climatici che hanno chiesto polemicamente: «Tornando a casa cosa racconteremo ai nostri figli?».
 

Ministro Cingolani, lei cosa ha raccontato alla sua famiglia? Come ha tradotto l’esito finale di Cop26?
«Ho spiegato che è impensabile fare una rivoluzione epocale con una Cop. Ma che quest’anno è stato fatto un passo avanti, perché tutti gli Stati hanno convenuto sulla necessità di accelerare il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, mantenendo il riscaldamento globale a circa 1,5 gradi (invece di 2) nella seconda metà del secolo».

Immediatamente prima del voto finale ha partecipato alle convulse consultazioni tra il presidente della Cop26, il britannico Alok Sharma, e il ministro indiano dell’Ambiente Bhupender Yadav. Che cosa è accaduto in quei minuti decisivi?
«Il ministro indiano ci ha detto chiaramente che avrebbe aderito alla risoluzione finale relativa a 1,5 gradi, solo qualora si fosse alleggerita la pressione sull’abbandono totale del carbone. Un modo per avere più tempo, organizzare la transizione energetica e nel frattempo crescere, ma aderendo all’obiettivo globale di 1,5 gradi di riscaldamento globale nella seconda metà del secolo insieme a tutti gli altri Paesi. Sono abili negoziatori: se avessimo optato per il muro contro muro, gli indiani si sarebbero svincolati da ogni impegno e avrebbero prodotto tutta la CO2 possibile, rendendo irreversibile il cambiamento e inutili gli sforzi di tutto il resto del mondo».

A parte la riconferma degli 1,5 gradi come obiettivo e la “diminuzione” del carbone, quali sono gli altri risultati positivi della conferenza di Glasgow?
«Sono state concordate regole precise per le finanze, per la trasparenza e la verifica di quanto dichiarato dagli Stati. Sono stati concordati processi e metodi uguali per tutti, che a partire dalla prossima Cop consentiranno di gestire meglio gli aiuti e gli sforzi. Può sembrare poco, ma non è così. Certo, per ottenere questi accordi è stato necessario scendere a patti con Paesi che fanno uso intensivo di carbone».

Sono però rimasti anche tanti nodi irrisolti.
«Sì, a cominciare proprio dall’assenza di una data certa per l’abbandono del carbone. Non abbiamo raggiunto i 100 miliardi l’anno dovuti ai Paesi vulnerabili, promessi nel 2015, e si devono trovare accordi operativi per aumentare le risorse destinate ai danni e alle perdite causate dagli eventi estremi nei Paesi più deboli. Più in generale, ai piccoli Paesi vulnerabili o alle isole che rischiano in pochi decenni di essere inghiottite dai mari non possiamo solo rispondere con regole, processi, linguaggi tecnocratici e promesse. Occorre che la solidarietà sia tangibile e in tempi molto brevi».

L’Italia però è tra i Paesi industrializzati quello forse più in ritardo con i versamenti delle quote che compongono i famosi 100 miliardi l’anno. Ci sono novità?
«Abbiamo quasi triplicato il budget per questi aiuti raggiungendo circa 1,4 miliardi di dollari all’anno per i prossimi cinque anni. È uno sforzo importante, perché per anni la cifra dedicata era rimasta invariata attorno ai 500 milioni. Però ricordiamoci che per la dimensione dell’economia italiana la cifra che dovremmo versare dovrebbe essere in proporzione maggiore. Quindi resta molto da fare».

L’Italia era co-presidente di questa Cop a guida britannica: che contributo ha dato il nostro Paese?
«Fondamentale. La nostra presidenza del G20, le iniziative Pre-Cop italiane e quelle con i giovani dello Youth for climate hanno dettato l’agenda e scolpito i contenuti su cui Cop26 ha fatto qualche passo avanti: l’ambizione di contenere il riscaldamento a 1,5 gradi, il ricorso alla partnership pubblico-privata per gli investimenti, il ruolo dei giovani, il concetto di multilateralismo, l’indicazione chiara che disuguaglianze globali e cambiamento climatico sono problemi interconnessi sono tutti concetti sviluppati dal G20».

E ora, archiviata Cop26, come prosegue la lotta ai cambiamenti climatici?
«Esattamente come prima. La più grande sfida che l’umanità abbia mai dovuto affrontare richiede che la lotta alle disuguaglianze globali e ai problemi del Pianeta sia condotta con improcrastinabile urgenza, grande serietà, conoscenza e solidarietà».

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