Clima, la versione di Greta Thunberg

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La risposta alla domanda se dovremmo concentrarci sul cambiamento dei singoli o del sistema è che non ci può essere l’uno senza l’altro. Abbiamo bisogno di entrambi. Risolvere la crisi climatica non è un compito che può essere lasciato agli individui e nemmeno al mercato. Per mantenerci in linea con i nostri obiettivi climatici – e quindi scongiurare i rischi peggiori di innescare una catastrofe – dobbiamo modificare per intero le nostre società. Per citare l’IPCC, “limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C richiederà cambiamenti rapidi, di vasta portata e senza precedenti in tutti gli aspetti della società”.

Per ottenere una trasformazione del genere non basterà che i singoli individui modifichino gli stili di vita, che le singole aziende trovino nuovi modi per produrre cemento verde o che i singoli governi incrementino oppure riducano le tasse. Ma, allo stesso tempo, è altrettanto impossibile attuare una trasformazione senza il contributo degli individui; i singoli devono fare da apripista dal basso. Singole persone, singoli movimenti, singole organizzazioni, singoli leader, singole regioni e singole nazioni devono iniziare ad agire.

In tutto il corso della storia le società hanno vissuto parecchi cambiamenti importanti. Alcuni sono stati alquanto drastici, nel bene o nel male. Per cui quando invochiamo cambiamenti senza precedenti in tutti gli aspetti delle nostre società non intendiamo che dovremmo limitarci a mangiare vegetariano un giorno a settimana, compensare in qualche modo le vacanze in Thailandia o scambiare il Suv diesel con un’auto elettrica. Eppure è questo che sembra pensare la maggior parte della gente in vaste aree del mondo.

E i motivi sono comprensibili. L’uomo è un animale sociale, un animale da branco, se preferite. Come spiegano Stuart Capstick e Lorraine Whitmarsh copiamo il comportamento degli altri e seguiamo i leader. Se non vediamo nessuno comportarsi come se fossimo nel mezzo di una crisi, pochissimi di noi capiranno che è esattamente lì che ci troviamo. In altre parole, dire che siamo di fronte a un’emergenza conta ben poco se nessuno agisce come se fossimo di fronte a un’emergenza. È un concetto che chi detiene il potere ha compreso alla perfezione, imparando a padroneggiare la sottile arte di dire una cosa facendo al contempo l’esatto opposto. Molto probabilmente è questo il motivo per cui abbiamo finito per trovarci in una situazione in cui, per esempio, le nazioni maggiori produttrici mondiali di petrolio stanno rapidamente espandendo le proprie infrastrutture relative ai combustibili fossili e allo stesso tempo si autodefiniscono leader del clima pur non riuscendo ancora a ridurre le proprie emissioni.

La lingua svedese ha coniato solo un ristrettissimo numero di termini oggetto di riconoscimento internazionale e che sono entrati a far parte del vocabolario globale. Uno dei più recenti è flygskam, la “vergogna di volare”. È un concetto collegato al movimento internazionale per il clima e al numero crescente di persone che hanno smesso di prendere l’aereo, perché spesso è di gran lunga l’attività individuale più deleteria in termini climatici che si possa intraprendere, se non si contano le trasferte spaziali stile miliardari o il possesso di un enorme yacht privato. Il motivo per cui il flygskam ha preso piede in Svezia è, molto probabilmente, che alcune celebrità l’hanno appoggiato. […] Esiste, comunque, un’altra parola svedese che merita ben più attenzione di flygskam, ed è folkbildning. Si potrebbe tradurre, approssimativamente, con “istruzione del pubblico su larga scala e volontaria”, e affonda perlopiù le sue radici nella comunità della classe operaia nata dopo l’introduzione della democrazia nel paese nei primi decenni del XX secolo, quando sono diventati legali i sindacati, a operai e donne è stato concesso il diritto di voto e la Svezia ha iniziato a costruire uno Stato di welfare.

Molti probabilmente ritengono che Fridays For Future sia stato inizialmente concepito come un movimento di protesta, ma non è così, o almeno non è così che è partito. Il nostro obiettivo primario, all’inizio, era diffondere informazioni sulla crisi, come atto di folkbildning. […]. Sono fermamente convinta che il modo più efficace per uscire da questo pasticcio sia educare noi stessi e gli altri (un tantino ironico, dal momento che l’idea degli scioperi scolastici si basa sul saltare la scuola, ma tant’è). Perché una volta che si capisce quale situazione ci troviamo di fronte, si sa più o meno cosa fare. E – aspetto forse altrettanto importante – si sa cosa non fare. Come per esempio concentrarsi sui dettagli specifici senza tener conto del contesto più ampio o, in altre parole, cercare di risolvere una crisi senza trattarla come tale. Sono assolutamente convinta che nel momento in cui entreremo in piena modalità crisi potremo anche considerare tutti i singoli possibili dettagli. Ma, fino ad allora, discutere di questioni specifiche e distinte sarà verosimilmente una perdita di tempo, perché molte di tali questioni distinte vengono cooptate per scatenare delle “guerre culturali”. Spesso sono concepite per distogliere l’attenzione e per bloccare qualunque progresso significativo.

Come lo sviluppo demografico, il nucleare o “e allora la Cina?”. Oltre alle guerre culturali, esistono parecchie altre strategie di successo per ritardare, dividere e distrarre. Come sottolineato da Naomi Oreskes, l’industria dei combustibili fossili ha “spostato i riflettori dal proprio ruolo anche insistendo che i cittadini dovessero assumersi le loro “personali responsabilità”” concentrandosi sulla propria impronta di carbonio di singoli.

L’idea è stata promossa in origine dalla compagnia petrolifera BP per sviare l’attenzione dalle grandi industrie nefaste al singolo consumatore. È stata molto efficace. Nina Schrank richiama l’attenzione su un tentativo analogo da parte di alcune aziende di bibite, come Coca-Cola, per far ricadere sui consumatori la colpa dell’impennata nell’inquinamento da plastica, e innumerevoli campagne simili sono state instillate nel dibattito sul clima. Una campagna recente, di grande successo, sostiene che un centinaio di aziende siano responsabili del 70 per cento delle emissioni mondiali. È la tesi diametralmente opposta a quella della retorica dell’impronta di carbonio, ma il risultato è grossomodo il medesimo: nello specifico, l’inazione. Il messaggio di fondo, stavolta, è che siccome le aziende che generano tutte queste emissioni sono solo un centinaio, non importa cosa facciamo come individui, perché sarebbe ben più efficace se ci limitassimo a sbarazzarci in qualche modo di quelle aziende. Come dovremmo sbarazzarcene non è chiaro, anche perché non abbiamo norme, leggi o restrizioni per farlo, a parte boicottare i loro prodotti, il che, ovviamente, è un’azione individuale.

Non fraintendetemi: sono pienamente d’accordo con il discorso di sbarazzarcene e fargliela pagare per la rovina indescrivibile che hanno provocato. Solo che, una volta sparite quelle cento aziende, di certo altre cento prenderebbero il loro posto, a meno che non trasformiamo per intero la nostra società, un processo che richiede che azione dei singoli e cambiamento sistemico vadano di pari passo. Perciò, ripeto, abbiamo bisogno di entrambi. Qualunque suggerimento in base al quale potremmo avere l’una senza l’altro, o per cui una singola idea o soluzione dovrebbe essere più importante di tutte le altre, sarà teso, è abbastanza garantito, a rallentarci. […]

La verità è che se vogliamo scongiurare le conseguenze peggiori della crisi climatica ed ecologica, non possiamo più ponderare e scegliere che azioni intraprendere: dobbiamo fare tutto ciò che possiamo. E per questo abbiamo bisogno di tutti: singoli, governi, aziende e qualunque altro organismo o istituzione si riesca a immaginare. Ma dobbiamo ricordare che il momento dei piccoli passi nella giusta direzione è finito da un bel po’. Non abbiamo più il tempo di accompagnare la gente pian piano. Perché quando si parla di crisi climatica, per citare lo scrittore americano Alex Steffen, “vincere lentamente equivale a perdere”.

© Collection copyright © Greta Thunberg, 2022
© 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

IL LIBRO

The Climate Book di Greta Thunberg (Mondadori, pagg. 464, euro 28). In libreria dal primo novembre

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