Come spiegare la morte ai bambini in tempo di guerra

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Come si spiega la morte ai bambini? A maggior ragione se è violenta e arriva nelle nostre case dagli schermi televisivi? Argomento tabù, che si fatica a chiamare per nome, la morte sembra essere presente nelle nostre vite più di un tempo. E pandemia prima e guerra in Ucraina poi ci hanno costretto a riflettere sulla nostra finitudine, mascherata spesso dalle conquiste della medicina con cui la addomestichiamo ai nostri tempi e alle nostre decisioni. È una situazione difficile anche per i  bambini, come confermano le domande che rivolgono sempre più spesso ai loro adulti di riferimento. Cosa dire loro e quale linguaggio usare?

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Ne abbiamo parlato con Francesca Brandolini, responsabile dell’Area psicologia di Vidas, che a Milano offre assistenza sanitaria completa e gratuita ai malati terminali adulti e bambini con servizi domiciliari, ambulatoriali e residenziali, e con Anna Spiniella, educatrice e pedagogista di Vidas. L’associazione ha avviato un progetto di webinar online dedicati proprio a come comunicare ai bambini questo evento naturale, che può anche essere violento. Spiega la Brandolini: “La cosiddetta death education, che letteralmente significa educazione alla morte, è una modalità educativa che implica l’accettazione della morte come naturale conseguenza della vita che, pur nella sua bellezza, ha sempre un inizio e una fine”. Quando viene fatta per tempo, si chiama death education primaria, ed è ormai entrata in molte scuole. Ma la maggior parte delle volte ci si trova a fare i conti con la perdita quando essa è imminente o già avvenuta, facendo rispettivamente death education secondaria e terziaria.

Fare pace con le paure

Molti adulti oggi credono di dover proteggere i bambini, non affrontando l’argomento e cercando di tenerli all’oscuro di quanto accade intorno a loro. Ciò è impossibile, ma è soprattutto sbagliato. “Da un lato, sono sovraesposti a immagini e parole e, dall’altro, non sono equipaggiati per affrontare la morte”, dice la psicologa, che imputa questa difficoltà alla scarsa alfabetizzazione emotiva degli adulti, che devono acquisire dimestichezza con la tristezza e il dolore. “Solo allora saranno capaci di parlarne con il bambino, che è un ascoltatore attento e percepisce tutto, anche se non riesce a darvi un senso” continua la Brandolini. “Qui sta il nostro compito, di delineare dei confini che aiuteranno il piccolo a non farsi paralizzare dal terrore e a nutrire la speranza che le emozioni negative possano svanire. Il bambino non può fare da sé”.

Il linguaggio

I decessi oggi avvengono per lo più in ospedale o nelle strutture. Parlare ai più piccoli di qualcosa che accade lontano dai loro occhi può chiaramente pesare. Parte da qui la pedagogista Spiniella nel suggerire alcune strategie. La prima riguarda la scelta delle parole: “Quelle che usiamo sono importanti. Si nomini la morte apertamente” dice. Infatti, spesso, di un defunto si racconta che è volato in cielo o che è partito per un lungo viaggio. Ricorrere a narrazioni immaginifiche e fantasiose, nella speranza che siano più comprensibili ai bambini, può metterci in una situazione molto scivolosa per due ragioni. C’è il rischio di spaventare: “Si è addormentato per sempre” potrebbe indurli a temere che i propri cari addormentati non si risveglino più.

Una interpretazione propria dell’accaduto

In secondo luogo, il mondo esterno potrà fornire versioni contrastanti: “Se ciò crea confusione nella mente del bambino, egli reagirà alla mancanza di informazioni chiare anche smettendo di chiedere. Con la fantasia che contraddistingue certe età potrà crearsi la propria interpretazione dell’accaduto, lontana dalla realtà e a volte anche più angosciosa” dice Spiniella. Il bambino, insomma, cerca coerenza e tocca a noi fornirgli una narrazione il più rassicurante possibile.

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Quando parlarne

Il consiglio principale, comunque, è quello di non farsi trovare impreparati all’appuntamento con il lutto e non dover agire nell’emergenza, anche perché i bambini hanno una grande capacità di includere nella propria esperienza la perdita dei propri cari. Dice la pedagogista: “I bambini fanno molte domande, due su tre sono legate alla vita e all’esistenza. Stanno conoscendo il mondo e noi dobbiamo facilitarli in questo processo di ricerca, ascoltandoli e chiedendo sempre il loro punto di vista, instaurando una conversazione che rafforza la relazione”. In questo, ci possono essere di aiuto le numerose occasioni fornite dal mondo naturale, come la vista di un uccellino morto al parco, che possono far sorgere naturalmente al bambino le prime domande ad esempio sulla cessazione delle funzioni vitali; crescendo, poi, capirà altri due concetti fondamentali: l’irreversibilità della morte e la sua universalità. Spiniella rassicura i genitori: “Le nostre risposte devono essere semplici, brevi e precise. Bisogna capire esattamente la domanda, anche per non anticipare concetti che ancora non sono del bambino. Ma, generalmente, se una domanda viene formulata, ci sono già le risorse per comprendere le risposte”.

Saper ascoltare

L’incertezza e la reticenza degli adulti non passano inosservate. I bambini devono sentirsi legittimati a fare domande, anche quelle scomode, come sul dopo la morte. Quando non abbiamo risposte certe, diciamolo senza timori; quando abbiamo qualche convinzione in proposito, presentiamola come un’opinione personale non necessariamente condivisa da tutti. “È un’occasione per insegnare che su certe tematiche, proprio quelle che ci accompagneranno per sempre, non esistono certezze o risposte assolute” spiega la Brandolini, perché “i bambini con le loro domande non cercano solo risposte, ma vogliono sentirsi accolti e percepire di non esseri soli nella sofferenza. Questo è molto importante per lo sviluppo della resilienza”. Agli adulti sia chiaro che dissimulare non paga mai e che mostrare il dolore e le lacrime fa bene: “Legittimare l’espressione corporea della sofferenza è un passaggio essenziale” sottolinea la psicologa. Infine, “i bambini si fidano di noi”. Quindi, per convincerli che si tornerà a essere felici, può essere di aiuto condividere le nostre esperienze di analoghe perdite passate e il modo in cui le abbiamo superate.

L’ultimo saluto

Quando un parente vicino, come una nonna, è in ospedale, sì alla visita per salutarlo. “Può essere difficile e triste, ma è dovuto, non solo per i nonni, ma anche per i nipotini, che da un mancato ultimo saluto possono eventualmente ricavarne una sensazione di abbandono” spiega Spiniella. L’altro grande quesito che si pongono i genitori riguarda il funerale e il passaggio al cimitero. Psicologa e pedagogista non hanno dubbi: “La partecipazione del bambino è caldamente consigliata perché la comunità e i suoi riti sono di aiuto, anche per dare il via al processo di elaborazione del lutto”.

Adolescenti in difficoltà

Ci sono poi le morti non naturali, come quelle violente per incidenti, aggressioni o guerre. Lì il discorso si fa ancora più complicato e la linea da seguire rimane quella della franchezza. Dice la psicologa, “attenzione a lasciare i bambini soli davanti alla tv o far loro sentire certi discorsi: i fotogrammi non elaborati possono trasformarsi in pensieri intrusivi”. Nei più grandicelli, invece, si possono generare riflessioni esistenziali e pensieri profondi. “Tuttavia, quello che vedono e sentono raccontare della guerra oggi si somma al senso di precarietà e imprevedibilità già alimentato da Covid e mina il loro senso di sicurezza e la convinzione che gli adulti possano proteggerli” riflette la psicologa. “La guerra li impensierisce. Così come il messaggio iniziale sulla pandemia era stato rassicurante, e poi sono stati investiti anche loro, così non riescono a escludere che la guerra non li coinvolgerà”.  Ricordiamo, però, che “è un nostro dovere morale educarli allo sdegno per la violenza e alla compassione verso chi soffre, coltivare il senso di giustizia degli adulti di domani”.

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