Corbevax, la ricercatrice italiana: “Il mio vaccino senza brevetto per il resto del mondo”

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Riuscire a vaccinare chi non ha ancora potuto farlo perché vive in Paesi dove mancano le risorse per immunizzare la popolazione e dove la distribuzione delle – insufficienti – dosi fornite dai Paesi ricchi incontra grosse difficoltà logistiche: è questo l’obiettivo di una scienziata italo-honduregna, Maria Elena Bottazzi, docente al Baylor College of Medicine di Houston.

“Sono nata a Genova, da madre italiana e padre nato in Honduras ma di origine italiana, visto suo padre era italiano e diplomatico in Honduras –  spiega la microbiologa – . A 9 anni ho lasciato Genova per l’Honduras e lì ho studiato prima di trasferirmi negli Stati Uniti”.

Il vaccino anti Covid sviluppato dall’immunologa è stato approvato in India a fine 2021. E’ poco costoso da produrre su larga scala, perché non richiede tecnologie d’avanguardia, e ha un’efficacia che supera l’80% contro la variante Delta. E soprattutto non è protetto da alcun brevetto, perché Bottazzi ha voluto che il suo costo di produzione fosse il più basso possibile, così da facilitarne la distribuzione nei Paesi più poveri dell’Africa e del Sudamerica.

Professoressa Bottazzi, come è nato il vostro vaccino anti Covid?
“Al Baylor College of Medicine abbiamo iniziato nel 2011 a lavorare a un programma per sviluppare vaccini contro i coronavirus. Abbiamo iniziato lavorando a vaccini contro la Sars e poi la Mers. Quindi avevamo i prototipi e i dati preclinici per capire come questi vaccini si comportavano per indurre immunità in sicurezza. Siccome il Sars-CoV-2 è simile al virus Sars, con una sequenza simile per la proteina Spike, abbiamo sviluppato il vaccino per Sars-CoV-2. Come antigene non usiamo la proteina Spike completa, ma solo il pezzettino della Spike che il virus usa per entrare in contatto con le cellule. Produciamo queste proteine sintetiche introducendo i geni della proteina Spike in una cellula di lievito. Poi, con la fermentazione, il lievito produce le proteine. È un sistema simile alla produzione della birra, solo che in quel caso con la fermentazione il lievito produce alcol, mentre nel nostro caso produce le proteine utili a vaccinare”.

Come vi siete organizzati per produrre Corbevax?
“Corbevax è il nome dato al vaccino dal nostro partner indiano, Biological E. Abbiamo dato loro queste cellule di lievito con il codice per produrre la proteina sintetica e abbiamo cosviluppato con loro i processi di produzione con i test di stabilità e controllo di qualità. Abbiamo condotto con loro studi preclinici per l’efficacia del vaccino. E l’azienda si è occupata della produzione: hanno effettuato tutti gli studi clinici per ricevere l’approvazione in India – ottenuta in dicembre – oggi sono in grado di produrre 100 milioni di dosi al mese. Ora stiamo lavorando anche con altri produttori a cui trasferiamo le nostre cellule e il nostro know-how: ad esempio l’azienda BioPharma in Indonesia, e Incepta in Bangladesh e poi ImmunityBio, con sede negli Stati Uniti ma con stabilimenti nei Paesi africani, come il Botswana. Ora dopo l’annuncio dell’autorizzazione data dall’India a Corbevax, stiamo parlando anche con altri produttori. È tutto molto aperto: non abbiamo esclusività con nessuno e non abbiamo registrato brevetti per questa tecnologia. I nostri studi sono tutti pubblicati e permettono a qualsiasi produttore di replicare questi processi di produzione”.

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Perché avete deciso di non brevettare il vaccino?
“Serviva una risposta veloce alla pandemia e i brevetti avrebbero allungato i tempi. Ma la nostra presa di posizione precede il Covid: il nostro centro originariamente è stato creato per sviluppare vaccini per le malattie tropicali, ovvero farmaci che le case farmaceutiche hanno poco interesse a produrre. Per incentivare la possibilità di collaborazioni con i produttori, l’ideale è usare dei sistemi di produzione che siano aperti e facili da implementare, sistemi per i quali i produttori abbiano già il know-how necessario. L’aspetto più importante è colmare il gap che esiste tra Paesi poveri e Paesi ricchi riguardo alla produzione e distribuzione di vaccini, e il nostro modello collaborativo e senza brevetti va proprio in questa direzione”.

Qual è il vantaggio dell’usare un lievito per produrre il vaccino?
“I lieviti che si usano per questo tipo di vaccini sono della specie Pichia pastoris. Ma con il processo di fermentazione si possono usare anche altri lieviti. Abbiamo scelto i lieviti invece delle cellule di mammifero perché queste costano di più. Il lievito è uno dei modelli meno costosi ed è il più facile per produzioni su scala molto grande, anche di miliardi di dosi. E ci sono già tanti produttori che sanno come usarli, quindi per produrre il vaccino non serve costruire nuove fabbriche, o acquistare nuovi macchinari, o assumere più persone. Perché le case farmaceutiche già hanno tutto l’ecosistema di produzione necessario. Le economie di scala e il fatto che non c’è bisogno di spendere per la ricerca e sviluppo, fa sì che questo vaccino costi meno di tre dollari a dose, così come i vaccini per l’epatite B e per la pertosse, che sono molto economici. Invece i vaccini a mRNA possono costare 20-30 dollari a dose”.

Ci sono altri vantaggi?
“Per conservarli è sufficiente la normale refrigerazione. Poi questo tipo di vaccino rimane stabile a lungo: può stare in refrigerazione per anni. E questo è molto importante per la distribuzione. Anche il profilo di sicurezza di questi vaccini a base di prodotti proteici è superiore agli altri vaccini: Biological E nel suo trial in India ha visto una riduzione del 50% rispetto agli effetti collaterali del vaccino distribuito in India da AstraZeneca. Il vaccino contiene la proteina purificata sintetica, con un adiuvante a base di allume che si usa già da 40-50 anni nella maggioranza dei vaccini pediatrici ed è quindi molto sicuro. L’efficacia del nostro vaccino contro la variante Delta supera l’80%, mentre non sono ancora disponibili i dati sull’efficacia contro Omicron”.

Cosa può fare un produttore italiano che volesse collaborare con voi?
“Può chiamarci. Noi abbiamo già tutte queste cellule e possiamo trasferirle, insieme ai nostri procedimenti, i nostri report, i nostri test per il controllo della qualità. Usiamo licenze non esclusive per poter contribuire con materiali o con formazione fatta dai nostri scienziati. Ma in realtà i produttori possono anche solo leggere le nostre pubblicazioni sul vaccino senza nemmeno chiamarci. Ovviamente se vogliono coinvolgerci, ci prestiamo molto volentieri”.

Come vede l’evoluzione di questa pandemia?
“La cosa più importante è che i vaccini arrivino dove devono arrivare, soprattutto nelle zone più prive di risorse: è lì che dobbiamo mettere più barriere immunitarie, perché il virus finisca di mutare. È altresì importante che si sviluppi un vaccino universale, che non si debba aggiornare di continuo per stare dietro al virus, e che offra una protezione sufficientemente lunga per poter prevenire altre varianti che al momento ancora non esistono. E noi stiamo lavorando in questo senso, basandosi sulla genealogia finora conosciuta del virus, abbiamo un programma chiamato ‘Pan Coronavirus’ per arrivare a un vaccino universale”.

Come si può produrre un vaccino universale per il coronavirus?
“Le strategie sono due: o realizzare un vaccino multivalente, dove si mescolano diversi tipi di antigeni così da poter neutralizzare il maggior numero possibile di varianti, oppure si dovrebbe isolare una sequenza che compare in tutte le varianti, così da usare come antigene una proteina sintetica che non esiste nella realtà ma che è sufficientemente simile a quella presente in tutte le manifestazioni del virus, così che il nostro corpo possa produrre una risposta immunologica adeguata”.

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