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Coronavirus, Speranza e Brusaferro sentiti dai pm di Bergamo sul piano pandemico

Impreparazione o negligenze? Ritardi o, addirittura, omissioni? Che cosa e perché non ha funzionato nella gestione dell’epidemia da coronavirus nella Bergamasca, una delle province più colpite nei mesi di febbraio e marzo e, a questo punto, non soltanto lì? Una lunga giornata di interrogatori. Tante domande sul tavolo. Rivolte dai magistrati della procura di Bergamo ai vertici della sanità nazionale. Come annunciato la scorsa settimana, il pool guidato da Maria Cristina Rota ha proceduto oggi a Roma con le audizioni programmate per fare chiarezza – dopo i temi già analizzati della mancata applicazione della zona rossa in val Seriana, delle morti nelle Rsa e della chiusura-apertura lampo dell’ospedale di Alzano – sulla controversa questione del piano pandemico nazionale.

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Un piano – ha già accertato la procura – risalente al 2006 e poi sostanzialmente mai aggiornato. I primi a essere interrogati come persone informate sui fatti, in mattinata, sono stati il ministro della Salute Roberto Speranza (già sentito a giugno quando i magistrati scesero a Roma per raccogliere le testimonianze anche dell’ex premier Giuseppe Conte e del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese), il coordinatore del Cts Agostino Miozzo (Protezione civile) e Donato Greco, estensore del Piano pandemico italiano tuttora in vigore, quello, appunto, del 2006.

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Questi ultimi due sono stati interrogati nella sede della Guardia di Finanza di via dell’Olmata, mentre Speranza è stato sentito nel suo ufficio al Ministero, sul Lungotevere Ripa. Per il procuratore aggiunto Maria Cristina Rota e gli altri magistrati del pool la seconda trasferta romana è stata una giornata densa di impegni: accompagnata dai finanzieri, Rota è arrivata al Ministero poco dopo le 9,30. Gli interrogatori sono andati avanti fino alla 14,30.

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Dopo una pausa, nel pomeriggio i pm hanno iniziato a sentire gli altri vertici della sanità: il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro (anche lui interrogato a giugno), l’attuale dirigente della Prevenzione del Ministero e componente del Cts, Gianni Rezza, e Giuseppe Ippolito, dello Spallanzani. Tutti e tre facevano parte della task force del Ministero, insediata il 22 gennaio ovvero 17 giorni dopo l’alert dell’Oms nel quale si diceva chiaramente a ogni paese di adottare i rispettivi Piani pandemici. Qui c’è il cuore della questione più centrale nell’inchiesta aperta dai magistrati bergamaschi. Perché, a differenza di altri Paesi, la task force italiana non ha applicato il Piano? E perché il piano in questione non era più stato aggiornato in 14 anni?

Recentemente è emerso che Giuseppe Ippolito aveva provato a sensibilizzare sulla necessità-opportunità di applicare da subito il piano. Ma tant’è: andò in altro modo. Ciò che è successo tra gennaio e febbraio del 2020, quando il Covid-19 dalla Cina arriva in Italia, prima nel Lodigiano e poi, con la potenza di uno tsunami silenzioso, nella provincia di Bergamo, è diventato materia di indagine. I magistrati ritengono che essendo il Piano pandemico una legge dello Stato – alla quale attenersi e da applicare per farsi trovare pronti di fronte a un evento epidemico e virologico di grave e larga entità – la sua mancata applicazione corrisponderebbe a una presunta sottovalutazione della situazione. E la situazione che si è creata a Bergamo e provincia dal 23 febbraio in poi è stata devastante. Si poteva evitare? È il dubbio a cui la procura di Bergamo vuole dare una risposta. Con tanto di prove.

Si vuole capire fino in fondo, sostanzialmente, se l’Italia e la Lombardia avevano fatto o meno tutto quanto avrebbero dovuto e potuto per prepararsi a fronteggiare i colpi del coronavirus: acquisto di mascherine e altri dispositivi di protezione, un programma con una selezione degli ospedali in base ai reparti Infettivi più adatti, una trasmissione di dati adeguata e un raccordo più solido con la medicina di territorio. L’allarme dell’Oms arriva ben 50 giorni prima del paziente 1, Mattia, a Codogno. Ma a quanto pare l’Italia e la sua Regione più produttiva, nonostante l’alert dell’Oms, all’epoca potrebbero essere stati in alto mare. Da qui la volontà da parte dei magistrati bergamaschi di analizzare che cosa non ha funzionato – e per colpa di chi – nella catena decisionale sanitaria nazionale.



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