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Covid: corsa al vaccino made in Italy

CHISSA’ cosa penserebbe Achille Sclavo della corsa italiana alla produzione di vaccini contro Covid-19 annunciata dal ministro Giancarlo Giorgetti. Lui che all’inizio del secolo scorso, aveva compreso così bene il valore della vaccinazione per la salute pubblica da dedicare la sua vita e i suoi risparmi alla creazione di un istituto sieroterapico alle porte di Siena, nelle stanze della sua residenza di campagna. Era il 1904 e il nemico di Sclavo era il carbonchio, malattia causata dal batterio dell’antrace che si prende dagli animali. L’igienista italiano sviluppò un vaccino efficace dando inizio a una vera scuola di esperti di malattie infettive e vaccinologia che ha portato per tutto il Novecento a considerare Siena uno dei centri di ricerca più avanzati in questo campo.

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Il censimento delle aziende italiane che possono produrre vaccini anti-Covid 19

Insomma, possiamo dire che avevamo in casa quello che adesso cerchiamo affannosamente di creare nel giro di 6 mesi? Ovviamente no, nel senso che la produzione di vaccini ai tempi di Sclavo o comunque nelle prime decadi del Novecento, era sicuramente diversa. Ma un dubbio può ragionevolmente venire: se lo Stato avesse investito in quel centro di eccellenza anziché abbandonarlo e, di fatto, spingerlo nelle mani di aziende straniere che ne hanno, legittimamente, fatto quello che era più strategico per loro, forse oggi non dovremmo cercare di fare il censimento delle aziende italiane che possono partecipare allo sforzo di una produzione tricolore dei vaccini contro Covid-19.

Una sola azienda non basta: ognuna fornisce un elemento

Le competenze di Siena sono state difese più che altro dai ricercatori che lì lavoravano – Rino Rappuoli in testa, che oggi è responsabile della attività di ricerca e sviluppo esterna presso GlaxoSmithKline Vaccines di Siena – ma non certo dai diversi governi chiamati a decidere se metterci dei soldi, oppure no. Risultato: quello che è stato salvato sul fronte dei vaccini è troppo poco per garantire una ipotetica produzione italica. A oggi. E al netto delle indagini che Giorgetti e Farmindustria stanno facendo per capire se si potrà, a che prezzo e quando, produrre in Italia vaccini anti-Covid. Che poi, anche su questo bisognerebbe intendersi. Per produrre un vaccino sono necessari decine di passaggi diversi e il coinvolgimento di molte aziende, ognuna delle quali fornisce un elemento o contribuisce alla produzione.

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Il reagente venduto in due sole aziende al mondo: una negli USA, l’altra in Europa

Jonas Neubert, ingegnere esperto di innovazione, ha provato a fare il conto di quello che ci vuole per produrre un vaccino a mRNA: oltre all’ingrediente attivo sono necessari diversi eccipienti, dei grassi e degli zuccheri, ognuno dei quali deve essere reperito sul mercato. Per dare un’idea delle difficoltà che si possono incontrare, basti pensare che una delle fasi vitali per la creazione dell’RNA è un’operazione detta 5-capping per il quale è necessario aggiungere un reagente venduto da due sole aziende in tutto il mondo, una negli Usa, l’altra in Europa. Ma anche produrre un vaccino a vettore virale non è semplice. Il chimico farmaceutico Derek Lowe, che scrive un blog sul sito di Nature Translational Medicine, fa la stessa operazione di Neubert, ma per gli altri vaccini in commercio. E anche in questo caso la conta è molto lunga e articolata: si parte dalla creazione del vettore virale alla sua purificazione e impacchettamento. Con decine di aziende coinvolte come fornitori di prodotti o di servizi.

Una singola nazione non può fare tuto da sola

Grazie al lavoro dell’European Data Journalism Network, che ha fatto una lista di tutte le collaborazioni europee per arrivare alla produzione, capiamo quanto complessa sia questa operazione e che l’Italia già contribuisce, anche se in minima parte. Pfizer/Biontech e Moderna hanno accordi rispettivamente con 11 e 4 aziende europee, nessuna delle quali italiana o che lavori sul nostro territorio. AstraZeneca ha collaborazioni con 8 società, fra cui Catalent che ha sede in Italia, ma è americana e l’italiana Advent specializzata nella lavorazione degli adenovirus; Johnson&Jonhson con 4, fra cui Catalent che produrrà il vaccino Covid e perciò avvierà una seconda linea di produzione.

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Se prendiamo in considerazione i vaccini non ancora approvati, ma prossimi, vediamo che l’americana Novavax e la tedesca Curevax hanno partnership rispettivamente con 7 e 6 aziende europee, la francese Valvena con altre 3, la joint venture fra Gsk e Sanofi coinvolge stabilimenti in Belgio, Francia, Italia e Germania. E poi c’è l’italiana ReiThera che comunque ha collaborazioni con aziende di Belgio e Germania. Insomma, vista la complessità dello scenario, sembra difficile pensare a un futuro in cui una singola nazione possa fare tutto da sola. Tanto meno l’Italia dove, come detto, si è rinunciato ormai decenni fa a investire sul settore dei vaccini. Da noi in altre parole non c’è un’azienda che possa offrirsi come partner a livello globale, come ha fatto in Francia Sanofi con Gsk, o come è successo negli Usa con Merck che è andata in aiuto di J&J.

Le soluzioni all’orizzonte sono italiane solo a metà

Ecco quindi che le soluzioni per ora all’orizzonte sono italiane solo a metà. La Thermo Fisher Scientific, che grazie all’annuncio del Presidente del Consiglio Mario Draghi è balzata al numero uno della classifica delle aziende impegnate nella produzione italiana, è americana e produce per conto terzi, ma ha due stabilimenti di produzione che potrebbero entrare in gioco a Ferentino, nel Lazio, e a Monza, in Lombardia. Il vaccino che verrà prodotto in Italia sarà con ogni probabilità quello di Pfizer/Biontech, sempre che il bioreattore dello stabilimento di Monza sia adatto o si possa adattare in tempi brevi. Già, perché mai prima d’ora un vaccino a mRNA era stato autorizzato e quindi prodotto su scala mondiale; nessuno ha le apparecchiature adatte, se non coloro che li hanno sviluppati; si tratta quindi di adattare nel più breve tempo possibile macchine e reattori non tanto dissimili da quelli necessari. Un’altra azienda provvista di bioreattori è la Acs Dobfar, con sede vicino a Milano ma con uno degli stabilimenti ad Anagni, dove potrebbe partire la produzione dei vaccini, compreso il russo Sputnik. ReiThera, l’azienda italiana impegnata nel vaccino italiano Grad-Cov-2, ha dei bioreattori e, in attesa che il suo prodotto sia autorizzato, potrebbe dare un contributo alla produzione di AstraZeneca e di Johnson & Johnson con cui condivide la tecnologia a base di adenovirus.

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Infine, Fidia Farmaceutici, che ad Abano Terme già produce vaccini per conto terzi, si è detta disponibile a mettere i suoi stabilimenti a disposizione. Anche se a oggi non è stato reso pubblico alcun accordo. Ma anche ammesso che la produzione italiana parta, i vaccini potranno essere considerati “italiani”? Cioè, essere destinati alla distribuzione solo sul nostro territorio? Sembra assai improbabile: la proprietà rimane sempre delle aziende capofila e gli accordi sono per lo più fatti a livello europeo. Ma certo, più “passaggi” della complessa catena produttiva si fanno in Italia, maggiore ci si immagina possa essere il peso italiano ai tavoli europei dove si decide la distribuzione delle dosi.

Gli stabilimenti italiani pronti a infialare

Per ora l’Italia eccelle soprattutto nell’infialamento a valle del processo più sofisticato con cui si ottiene il materiale biologico (quello per cui sono necessari i bioreattori), la sua purificazione, miscela e formulazione. Una situazione speculare a quello che avviene nel campo dei farmaci, dove l’Italia ha il primato europeo di conto terzismo: produciamo sul nostro territorio più di ogni altra nazione europea ed esportiamo quindi anche grandi quantità di medicinali. Una condizione che ci espone di più alla concorrenza di mercati dove la manodopera, anche quella specializzata, costa meno che da noi. In più rimaniamo orfani di ricerca, quella che può sembrare molto dispendiosa all’inizio, ma che poi permette di sviluppare le innovazioni, per esempio i vaccini a mRNA. Giusto quindi accelerare la produzione dei nuovi vaccini contro Covid-19 ma, già che ci siamo, sarebbe opportuno anche ripensare a come finanziare seriamente la ricerca e rendere l’Italia un Paese appetibile non solo per la produzione ma anche per lo sviluppo di nuove idee.



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