Covid è qui per restare

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Ben prima dell’arrivo degli agenti infettivi che causano la Sars e la Mers era già noto che ci sono altri quattro coronavirus che circolano nella popolazione umana, dando raffreddori per nulla preoccupanti. La domanda è: quando e come sono arrivati? Sono sempre stati relativamente inoffensivi, oppure hanno percorso una strada iniziata con gravi infezioni per poi raggiungere, nel tempo, un patto di non belligeranza con l’ospite, cioè noi, e garantirsi così una replicazione priva di intoppi? La risposta è cruciale, perché potrebbe aiutare a intravedere che cosa succederà con Sars-CoV 2, e fornire suggerimenti su come batterlo sul tempo.

A scoprire i coronavirus è stata una donna, June Almeida (nata Hart), una scozzese molto esperta di microscopia elettronica, al punto che a lei si devono altre prime descrizioni importanti come quella dei virus della rosolia e dell’epatite B. Nel 1966 il suo collega David Tyrrel le invia un campione di un ragazzo raffreddato in cui c’è qualcosa che sfugge a tutte le verifiche, perché non è nessuno dei virus e dei batteri noti. L’organismo, chiamato B814, viene identificato da Almeida: è un grosso virus tondeggiante, che presenta una sorta di corona simile a quella solare. Il nome da lei scelto non può che essere: coronavirus. E fino alla Sars nessuno si preoccupa troppo di una famiglia che, nel frattempo, continua a crescere (sono più di 3.000 i coronavirus classificati).

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Covid: l’origine della pandemia

La storia di quei virus oggi aiuta a prevedere quella di Sars-CoV 2. Compito arduo, perché la vita media allora era decisamente più breve, e le infezioni respiratorie funestavano la popolazione ben più di oggi: tra le molte che si sono succedute, potrebbe esserci stata anche una pandemia di un coronavirus poi evoluto verso forme innocue o quasi. Ma si cerca comunque di dedurre gli elementi cruciali della famiglia.

Spiega Graziano Pesole, ordinario di Biologia molecolare dell’Università di Bari e coordinatore del ramo italiano del progetto internazionale di sequenziamento Elixir, che riunisce 23 centri in tutto il paese: “Lo scopo primario dei virus è vivere e proliferare indisturbati e, di conseguenza, essere il più possibile infettivi e, al tempo stesso, poco patogeni (virtualmente per nulla): un virus di successo è un virus che si mimetizza e si integra con l’ospite senza dare alcun fastidio. Per raggiungere tale scopo muta continuamente”. Le varianti che tanto preoccupano, quindi, non sono un fenomeno recente, anzi. “Le prime prove di varianti dei coronavirus risalgono all’autunno 2019 e da allora ne sono state osservate oltre 60.000”, conferma Pesole. “È un fatto statistico: maggiore è la circolazione del virus, più grande è il numero di varianti. Il vero punto è conoscerle, agire subito ed efficacemente su quelle pericolose, e seguirne l’andamento nel tempo. Per questo è urgente organizzare il sequenziamento, oggi eseguito in modo ancora troppo disomogeneo e in quantità del tutto insufficienti”.

La maggior parte delle varianti (più del 99,9%) sono “neutrali”, cioè non modificano le proprietà del virus. Ma una piccola parte può essere il risultato di un’evoluzione adattativa, cioè di una risposta a specifiche situazioni ambientali. Queste varianti “adattate” modificano effettivamente le caratteristiche del virus e, chiarisce ancora Pesole, si generano con maggiore frequenza quando il virus è sotto attacco a causa dei vaccini e dell’aumento del numero di persone immunizzate naturalmente. “Si chiama immune escape, cioè, letteralmente, ‘fuga dal sistema immunitario’, ed è, per il virus, una spinta a mutare ulteriormente, per diventare meno riconoscibile agli anticorpi: per questo bisogna batterlo sul tempo, e vaccinare il maggior numero di persone prima che metta in atto una strategia vincente”.

A complicare l’esistenza di Sars-CoV 2 c’è poi anche la convivenza – che a volte è competizione spietata – con gli altri virus che hanno i medesimi bersagli. Il mondo di Sars-CoV 2 è insomma molto dinamico e alla continua ricerca di un equilibrio.

Covid in forma grave? E’ scritto nei geni

Per questo, azzardare previsioni è un esercizio ad alto rischio di errore: entrano in gioco molte variabili. Tuttavia, come ha sottolineato un panel di esperti interpellati da “Nature”, ci si aspetta che Sars-CoV 2, dopo un esordio così turbolento, causato dal fatto che per la prima volta ha infettato l’uomo, diventi assai più mansueto, ed entri a far parte della già folta schiera di virus respiratori. Potrebbe insomma diventare un virus stagionale (gli altri coronavirus lo sono), presente ogni anno con varianti diverse, contro il quale potrebbe essere necessario riformulare i vaccini periodicamente, se non tutti gli anni. Un virus non più in grado di uccidere l’ospite e, con esso, se stesso.

Come andranno le vaccinazioni e come reagirà il nostro organismo

Sars-CoV 2, dunque, è qui per restare, e cioè per diventare un virus endemico e poco preoccupante, come i suoi quattro parenti stretti che causano normali raffreddori, oppure la sua sarà una parabola folgorante, ma destinata a esaurirsi? Per rispondere a questa domanda, Nature ha interpellato un centinaio tra immunologi, virologi ed esperti di vario tipo: quasi due terzi si sono detti ottimisti, pur tra numerosi distinguo e “se” riferiti ad altrettante variabili. Perché se ci si può aspettare un certo tipo di andamento, è anche vero che questo è un virus ancora poco noto, che ha già sconcertato chi lo studia. E che cosa succederà non dipende solo da lui. Molto, infatti, dipende dall’ospite. L’andamento delle campagne vaccinali ma, soprattutto, le tante domande ancora senza risposta sulle reazioni dell’organismo umano influenzeranno il suo comportamento, e lo indirizzeranno verso un certo destino evoluzionistico specifico.

Per capire meglio il peso di ciascuna delle variabili relative all’ospite, abbiamo interpellato Luca Guidotti, vice direttore scientifico dell’Ospedale San Raffaele di Milano, grande esperto di virus e responsabile di uno dei più completi laboratori di ricerca sul Sars-CoV presenti in Italia, l’unico a disporre di modelli animali di Covid-19. Che ci ha spiegato come gli ambiti principali cui fare attenzione sono due: quello dei vaccini e dei farmaci e quello della risposta immunitaria a un virus con cui l’uomo ha dovuto imparare a fare i conti per la prima volta nella sua storia.

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Varianti e mutazioni, la strategia del virus per ingannare il nostro sistema immunitario

Uno dei concetti diventati più familiari è quello dell’immunità di gregge, che dovrebbe assicurare il contenimento del virus per mancanza di persone suscettibili all’infezione. In realtà, nessuno oggi può dire quale percentuale di popolazione si debba vaccinare per raggiungerla: le stime vanno dal 70 al 90%, a seconda delle varianti che riusciranno a prevalere e dell’aggiornamento eventuale dei vaccini contro di esse, che comunque richiede tempo.

Resta inoltre da capire se nella copertura debba essere compresa la popolazione infantile che, per le sue caratteristiche (alta percentuale di asintomatici e grande capacità di trasmissione), rischia di essere l’elemento che compromette gli sforzi vaccinali. Per ora è stata esclusa, ma Pfizer, Moderna e AstraZeneca stanno conducendo gli studi necessari e dovrebbero avere i primi dati entro l’estate: in base a quanto emergerà si prenderanno decisioni in merito. Un’altra domanda dirimente è quella sulla capacità dei vaccini di ridurre significativamente la trasmissione: anche se non ci sono certezze, da quanto sta succedendo in Israele e in Gran Bretagna sembra che sia così, e questo potrebbe aiutare moltissimo, soprattutto se si manterranno misure di precauzione quali il distanziamento e l’uso delle mascherine.

Allungando lo sguardo a tempi più lunghi, in generale, spiega Guidotti: “Bisogna ricordare che lo sforzo vaccinale, data la drammaticità del momento, è stato indirizzato verso il bersaglio più ovvio, la proteina spike. I vaccini attuali non solo inducono i linfociti B a produrre anticorpi in grado di bloccare l’entrata del virus nelle cellule, ma stimolano anche i linfociti T a riconoscere e uccidere cellule che si sono già infettate. Non sappiamo ancora se future mutazioni della spike potranno consentire al virus di eludere le risposte anticorpali e quelle linfocitarie T, ma è ovvio che tale rischio diminuirà quando arriveranno vaccini capaci di stimolare una reazione immune protettiva anche contro altre proteine virali. Non dimentichiamo che Sars-CoV 2 contiene, oltre alla spike, un’altra trentina di proteine di cui si sa ancora poco”.

Un altro settore che potrebbe fare la differenza è quello degli antivirali, che finora ha dato non poche delusioni, perché ci si è concentrati soprattutto sui farmaci immaginati per altri virus. Ma nei prossimi anni ci potrebbero essere sorprese. Sono infatti in studio diversi antivirali di nuova generazione, compresi alcuni inibitori di enzimi virali – le proteasi – su cui sta lavorando lo stesso Guidotti insieme a colleghi delle università di Milano e Napoli. Questi farmaci dovrebbero essere efficaci contro tutti i coronavirus ed essere assunti ai primi sospetti di malattia, in modo da prevenire forme gravi e i ricoveri e gestire così il Covid in modo assai differente da quanto avvenuto finora. Occorre ancora tempo, e molto denaro, perché sviluppare antivirali è più complesso che sviluppare vaccini, ma ci sino indizi che autorizzano a sperare.

Covid, le troppe cose che non sappiamo delle varianti

Oltre alle domande su vaccini e farmaci, molti interrogativi riguardano le reazioni del nostro organismo, che iniziano a essere più chiare, ma che sono ancora lontane dall’essere comprese appieno. “Ci si è concentrati sugli anticorpi, la cui produzione è però estremamente variabile e destinata a scomparire dopo qualche mese”. Inoltre sappiamo, dalla storia della Sars, che gli anticorpi contro i primi ceppi, nel tempo, sono diventati sempre meno efficaci contro le varianti che via via sono apparse, e lo stesso si inizia a vedere anche con Sars-CoV 2. Dobbiamo insomma cambiare strategia, e prima di tutto capire meglio come si comportano i linfociti B e T della memoria. Questo consentirà di prevedere, per esempio, quanto dura l’immunità protettiva, o che cosa succede se arriva una variante, sia per quanto riguarda l’immunità indotta da un vaccino sia per quella naturale. Sembra che questo virus lasci una memoria robusta a livello di linfociti T, ma solo il tempo fornirà responsi definitivi. E quando ne sapremo di più potremo pensare anche vaccini o farmaci innovativi, che potenzino selettivamente quel tipo di risposta. Per ora, una delle vie è quella di analizzare a fondo le persone che, pur essendo state esposte a fonti di contagio certe, non si sono ammalate, e poi verificare tutto nei modelli animali.

La domanda è: che cosa le rende resistenti? “Negli studi sull’Hiv uno dei principali passi in avanti è stato fatto proprio in questo modo”: Guidotti si riferisce alla vicenda di Stephen Crohn, un uomo il cui partner morì nel 1978 di Aids, ma che non si ammalò mai. Analizzando il suo sistema immunitario, che presentava una specifica mutazione presente solo nell’1% della popolazione, che impedisce al virus di legarsi alle cellule dell’ospite, si fecero scoperte che portarono all’antivirale maraviroc, ancora oggi fondamentale.

Nel caso di Sars-Cov 2, si è capito che quelli che si ammalano più gravemente spesso hanno difetti nella produzione di interferone, una sorta di antivirale naturale, o autoanticorpi contro di esso, e questo è considerato un buon punto di partenza. C’entrano anche, per alcuni, i geni dei Neanderthal, che renderebbero più probabile l’eccesso di risposta che provoca i guai più seri, così come sembra esercitare un ruolo protettivo il gruppo sanguigno 0 con Rh negativo.

Ma moltissimo resta da comprendere: da quella conoscenza di base dipende il fatto di poter prevedere, prima di constatarlo nei fatti, se e quando Sars-CoV 2 diventerà endemico.

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