Covid, il crollo dei contagi a Piacenza finisce sotto al microscopio: ipotesi immunità di gregge

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“Piacenza, Bergamo, Lodi e Vo’ Euganeo: i territori colpiti più violentemente all’inizio dell’epidemia sono parsi maggiormente al riparo in autunno. È un fenomeno che si è ripetuto in maniera sistematica, statisticamente non può essere un caso. Quel che rimane da capire è il perché. Ecco, noi avanziamo alcune ipotesi”. La più intrigante delle quali è che nei territori martoriati la scorsa primavera “si sia stabilita un’immunità non così lontana da quella cosiddetta di gregge”.

Il professor Marco Vinceti, docente di Epidemiologia e Sanità Pubblica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, sintetizza così i risultati e le possibili interpretazioni che emergono dallo studio pubblicato in questi giorni sulla rivista internazionale Environmental Research. Una ricerca – firmata insieme a Tommaso Filippini, ricercatore del Dipartimento di Scienze Biomediche, Metaboliche e Neuroscienze dell’Ateneo, e realizzata con la collaborazione di docenti dell’Università di Stoccolma e della Boston University – che attraverso l’incrocio dei dati di incidenza dell’infezione da SARS-CoV-2 nelle varie province italiane ha prodotto una “prima rigorosa analisi delle relazioni tra prima e seconda ondata Covid-19”. E che ha permesso di individuare una “correlazione diretta tra le due ondate” e un “andamento chiaramente inverso” tra la scorsa primavera e l’autunno. Ossia: nei territori martoriati nel primo lockdown (con incidenza di almeno 500 casi per 100mila residenti) la seconda ondata è risultata “tanto più attenuata quando più forte era stata l’intensità della prima”.

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“Con una simile costanza di risultati sia a livello nazionale che regionale – spiega a Repubblica Vinceti – tendiamo a escludere che possa trattarsi di un caso”. E allora come può essere spiegato un simile fenomeno? Qui, premettono gli autori, entriamo nel campo delle interpretazioni, che restano tutte da dimostrare. Sono tre, in particolare, le ipotesi avanzate dai ricercatori.

La prima è che nelle province più scottate all’inizio dell’epidemia la popolazione abbia adottato un atteggiamento più prudente. “Ma tendiamo a scartarla, è inverosimile: le immagini di Bergamo le abbiamo viste in tutt’Italia”.

C’è allora l’ipotesi dei superdiffusori, cioè gli individui asintomatici dotati di grande capacità infettante. La prima ondata potrebbe averli colpiti selettivamente, aiutandoli a sviluppare l’immunizzazione post-infezione e limitandone così il ruolo in autunno. “Esaurito quel serbatoio – ragiona Vinceti – l’epidemia potrebbe aver fatto più fatica a circolare. Ma anche questa possibilità non è del tutto convincente”.

Infine l’ultima possibile interpretazione, che per ammissione dello stesso docente è anche la più “intrigante”. E che immagina un’immunità acquisita meno lontana dalla soglia “di gregge” di quanto “ci facessero presagire i dati di sieroprevalenza”. L’indagine nazionale Istat diffusa la scorsa estate evidenziava infatti che a Piacenza soltanto il 10,5% della popolazione aveva sviluppato gli anticorpi da SARS-CoV-2, una percentuale decisamente lontana dal 60-70% richiesto per l’immunità di gregge. “Proprio per questo motivo per la seconda ondata ci si aspettava un impatto durissimo anche nelle aree già fortemente provate dalla prima ondata, che invece fortunatamente non è avvenuta”. L’ipotesi dello studio Unimore è che ci sia allora qualcosa di diverso, “un’immunità più estesa”. Recenti studi pubblicati su Nature hanno infatti illustrato la possibilità che una parte dei pazienti entrati in contatto con il virus sviluppi una risposta immunitaria sotto forma di linfociti T: una sorta di immunità cellulomediata, che sfuggirebbe quindi al test degli anticorpi. “E poi potrebbero entrare in gioco anche le immunità crociate derivanti da altri Coronavirus, come quello del raffreddore”. In altre parole: a Piacenza la percentuale di persone in qualche modo protette dal virus potrebbe essere ben più ampia di quel 10,5%, pur restando ancora distante dalla soglia “di gregge”.

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Sia come sia, aggiunge Filippini, “una maggiore comprensione delle dinamiche epidemiche, assieme allo studio di altri determinanti come i fattori ambientali e meteoclimatici e le caratteristiche della popolazione colpita, potranno permettere in un’ottica predittiva di avere una maggiore consapevolezza su quello che ci potremo attendere riguardo l’andamento di future epidemie su scala globale. Ciò anche al fine di organizzare la risposta dei servizi sanitari in modo più rapido ed efficiente nel tentativo di minimizzare gli effetti negativi nella popolazione, specialmente per le categorie più fragili come anziani e portatori di patologie croniche”. 

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