Covid, perché è così difficile confrontare i vaccini

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Tipo, efficacia, modalità di conservazione, dosi e tanto altro. Per valutare un vaccino abbiamo a disposizione più parametri. Ma come capire quale sia il migliore in un determinato contesto? Sono le domande che ricercatori e governanti devono affrontare nel momento in cui sono chiamati a selezionare i sieri sui quali puntare per porre fine a una pandemia che ha già causato in tutto il mondo più di 2 milioni e mezzo di morti. Una decisione che deve tenere conto dei dati e delle informazioni che possediamo finora, di scorte limitate e, al contempo, della necessità di agire velocemente.

Avere molti e differenti vaccini anti-Covid in sviluppo, ci ricorda l’Organizzazione mondiale della sanità, aumenta le chance che ce ne siano uno o più di successo. A dicembre 2020 si contavano oltre 200 candidati in fase di sviluppo. Di questi, almeno 52 in sperimentazione sull’uomo e molti altri in fase 1 o 2 di ricerca. Tre al momento quelli autorizzati dall’Ema, l’European Medicines Agency: Pfizer, Moderna, AstraZeneca.

Ma ad oggi, sulla base dei dati disponibili, come scrive Nature, sono  difficili da comparare. E potrebbero volerci mesi prima che possano essere classificati.

“Siamo di fronte alla più grande operazione vaccinale della storia dell’umanità. I tempi devono essere veloci e nel rispetto di determinate regole. Ogni giorno impariamo qualcosa di nuovo: l’età consigliata per un vaccino; il numero e il distanziamento delle dosi; l’efficacia ridotta in presenza di varianti; la combinazione dei vaccini”, premette Roberto Cauda, professore ordinario di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.

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“Gli organismi di controllo danno il via libera solo a vaccini sicuri e capaci di consentire il controllo della malattia, di proteggere dalle sue forme più gravi. Faccio riferimento a quelli approvati dall’Ema ma anche a quelli per cui sono stati pubblicati dati su riviste internazionali come per Sputnik”, aggiunge.

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Efficacia e protezione

In un contesto in cui bisogna agire in fretta e le scorte sono limitate, scrive Nature, qualsiasi sforzo per classificare i vaccini deve tenere conto non solo della loro efficacia dichiarata, ma anche delle forniture, dei costi, della logistica di implementazione, della durata della protezione e della capacità di respingere varianti virali emergenti. Anche così, è difficile però distogliere lo sguardo dai risultati degli studi clinici che suggeriscono un divario di efficacia.

“Un’efficacia maggiore può avere un impatto migliore. Ricordiamo però che, ad esempio, se è pari al 70% equivale a quella di vaccini che usiamo da molto come quelli anti-influenzali”.

Ma il punto nodale, aggiunge l’esperto, è un altro: “Dobbiamo chiederci se un vaccino prevenga l’infezione e la malattia o solo la malattia. In questo momento, in cui abbiamo i risultati della fase 3, non c’è una risposta. In questa fase dello sviluppo dei vaccini, condotta in modo molto corretto ma anche veloce, non si sono fatti i tamponi ma si è andato a vedere quanti si ammalavano di Covid”. Non è stata studiata sistematicamente nei trial clinici la prevenzione dell’infezione e dunque non sappiamo ancora se i vaccinati possono bloccare la trasmissione.

Tra efficacia e protezione c’è una differenza. Possono coincidere, ma va verificato.
“Un’efficacia del 95%, come per Pfizer, non significa una protezione del 95% dei vaccinati. Significa che riduce del 95% il numero di nuove infezioni della popolazione vaccinata rispetto a quella non vaccinata”, spiega il docente. Per avere una risposta occorre attendere i risultati della quarta fase dei vaccini, che comincia nel momento in cui diventano disponibili.

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I vaccini non si possono paragonare solo sulla base dell’efficacia. Le scelte non possono prescindere dal contesto. “In Gran Bretagna ad esempio si è scelto AstraZeneca in presenza della variante inglese dilazionando la seconda dose. Una scommessa vinta. Con Pzifer non sarebbe stato possibile” dice Cauda.

Le sperimentazioni sono state condotte con campioni demografici diversi. Per AstraZeneca, ad esempio, gli sviluppatori hanno raccolto pochi dati sull’efficacia nelle persone di età superiore ai 65 anni. Da qui i cambiamenti nelle indicazioni delle fasce d’età, anche se l’Agenzia europea per i medicinali lo raccomanda a tutti gli adulti. Cosa che sta accadendo anche da noi in queste ore.

Così come è diverso il periodo in cui è avvenuta la sperimentazione in vari paesi. Ogni prova rispecchia la situazione in un dato momento. “I dati dell’efficacia sono stati fatti in assenza o con una circolazione molto ridotta della varianti. Anche in questo caso sarà la fase quattro a dare una parola definitiva” spiega Cauda.

Servono studi di sorveglianza

Ogni misura di efficacia è accompagnata da un grado di incertezza e i trial potrebbero basarsi su definizioni diverse di criteri importanti. Aspetto rilevante con il diffondersi di varianti virali.

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